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Il delirio sui social dopo lo stupro a Palermo, l'avvocato Scorza: «Per la vittima una seconda violenza»

Il componente del collegio del Garante per la Privacy: «I profili fake degli indagati per la violenza di gruppo? Non vengono creati per difenderli, ma per alimentare l'odio»

«Se il video della violenza sessuale di gruppo dovesse in qualche modo arrivare a una piattaforma on line, sia gli indagati che la vittima sarebbero condannati a vita. Al di là di quello che accadrà in tribunale, quel filmato potrebbe ulteriormente segnare l'esistenza di chi è coinvolto in questa storia terribile». A dirlo in merito allo stupro avvenuto a Palermo e alla creazione di gruppi su Telegram che attendono la pubblicazione del filmato, è l'avvocato Guido Scorza, componente del collegio del Garante per la Privacy.

«Le immagini non girano ancora, ma il rischio concreto esiste, perché per loro stessa ammissione gli indagati hanno detto di averle inviate tramite cellulare - aggiunge Scorza -. Stiamo valutando la situazione. Per la ragazza si tratterebbe di una seconda violenza: il contenuto digitale, una volta approdato sui social, la segnerebbe per l'eternità. Una sofferenza che si aggiungerebbe a quella che sta già vivendo. Ma non possiamo non escludere i rischi a cui vanno incontro anche gli indagati: questo contenuto resterebbe su internet e tra qualche anno tornerà a galla. Per loro potrebbe essere impossibile rifarsi una vita, a prescindere da cosa decideranno i giudici. La giustizia social non sempre corrisponde a quella delle aule di tribunale e bisogna cercare di evitare in ogni modo la gogna mediatica».

La preoccupante nascita dei gruppi su Telegram in cui migliaia di utenti cercano il video dello stupro di gruppo, non è l'unico segnale allarmante. Ad alimentare la deriva social dopo il fatto di cronaca, ci sono i profili fake in difesa degli indagati. «In realtà l'obiettivo di chi li crea non è quello di difendere il branco, ma di alimentare l'odio nei confronti degli indagati - spiega Scorza -. Questi profili vengono realizzati per fomentare la rabbia ai danni di un personaggio già scomodo. Vengono scritte frasi che lo vittimizzano, ma sappiamo bene che la linea di difesa che viene adottata davanti a un giudice non può andar bene sui social. Scrivere "Io non ero in me quando è successo" è una frase destinata ad essere travolta dagli insulti su un social network, proprio come sta accadendo su TikTok in queste ore. Un vero e proprio processo mediatico - conclude Scorza -. Una volta a farlo era la tv, magari con la presenza di un conduttore o di un giornalista, oggi il fenomeno è inevitabilmente amplificato dal web, e lo è all'ennesima potenza».

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