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Il blitz antimafia di Palermo, Arduino regista del racket: «Non andate lì, sono tutti "Addiopizzo"...»

Il pagamento, secondo il clan, doveva essere imposto a tappeto. I titolari dell’hotel Villa D’Amato provarono ad avere uno sconto

C’era il titolare di una ditta di autodemolizioni che chiedeva scusa perché non aveva riconosciuto gli esattori del pizzo e non si era messo subito a disposizione. Ma, in corso dei Mille, c’era anche una farmacia dove era meglio non andare perché erano «tutti carabinieri» e «Addiopizzo», visto che avevano installato alcune telecamere per «fare la trappola» agli estorsori. È lo spaccato desolante emerso nel corso delle indagini condotte dalla squadra mobile, guidata da Marco Basile, che hanno portato al blitz nei quartieri di Brancaccio e dello Sperone. Anche se c’era qualche eccezione, la quota dovevano pagarla tutti: dall’impresa di costruzioni all’albergo, dai bar ai negozi di abbigliamento, perfino il panificio, il barbiere e chi si metteva in proprio aprendo una bancarella, doveva mettersi in regola.

E poi c’era anche un’altra attività parallela, quella del furto dell’auto con il metodo del cosiddetto «cavallo di ritorno»: dopo la sparizione scattava la richiesta di sborsare un riscatto per la restituzione. Alcuni commercianti accettavano di regalare cassate e panettoni, che poi venivano girati ai «soldati» che non potevano ricevere un compenso in denaro per la loro prestazione criminale: era una sorta di bonus omaggio che veniva elargito per la loro fedeltà.

Era il boss Giuseppe Arduino (nel riquadro), che dopo essere uscito dal carcere si era rimesso a girare tra corso dei Mille, via Messina Marine e viale Regione Siciliana, a imporre le tangenti, a dare il via libera se qualcuno aveva intenzione di alzare la saracinesca, a controllare chi stava eseguendo lavori di ristrutturazione e chi doveva fermare i cantieri perché si era rifiutato di aderire al pizzo. In realtà solo uno si era ribellato a questa situazione: l’imprenditore edile Giuseppe Piraino, ormai noto per il suo no al pizzo, amministratore unico della Mosina Costruzioni. Lui aveva denunciato la tentata estorsione subita da alcuni dipendenti impegnati nella ristrutturazione di un condominio di via Messina Marine. Gli emissari del clan si erano presentati in cantiere minacciando un operaio: «Lo sai che a casa degli altri si tuppulia? Digli al tuo titolare che si metta a posto, altrimenti passa i guai, lui lo sa dove andare».

Nonostante la paura, un altro dei presenti aveva fotografato la targa del motorino con cui erano arrivati i due uomini del clan, che erano stati subito identificati dagli investigatori. Una storia che riguarda quanto emerso nel processo Vento, concluso di recente con pesanti condanne e in cui gli stessi operai si erano costituiti parte civile. In ogni caso, però, a Brancaccio il coraggio era di pochi: di regola chi veniva avvicinato preferiva restare in silenzio e versare la somma pattuita.

Alcuni cercavano anche di contrattare per avere uno sconto, come i titolari dell’hotel Villa D’Amato che, pur garantendo il pagamento, avevano lamentato difficoltà economiche, anche se gli addetti alla riscossione non si erano particolarmente inteneriti. «Dice, ha 100 mila euro di debiti questo e quello, però mi ha detto che se non è la prossima settimana, all’altra settimana ve li faccio avere», spiegava Vincenzo Vella, uno degli indagati, a Giancarlo Romano, ucciso a colpi di pistola lunedì scorso. Quest’ultimo aveva dettato la linea da utilizzare nei confronti di Giorgio, persona non identificata che non si era piegata: «Vedi che siamo tutti seccati», era stata l’espressione suggerita. E Vella non si era fatto pregare: «Per quanto riguarda il signor Giorgio, domani ci vado là e lo faccio nuovo».

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