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Palermo, una talpa informava il boss dello Sperone ucciso

Un poliziotto aveva informato Giancarlo Romano di un’indagine, spifferando dettagli utili per non far catturare i vertici della famiglia

«Allora l’anno scorso mi è venuto a dire che hanno messo mano i carabinieri. Chi è che me lo ha detto non si può sbagliare. Dice che i carabinieri... la Procura... ha preso ... gli ha tolto la cosa alla squadra mobile che non riusciva a prendere niente. Quello che mi ha detto così... è della squadra mobile». Il boss Giancarlo Romano, ucciso allo Sperone il 26 febbraio, parlava sotto voce con due suoi uomini, Giuseppe Chiarello e Settimo Turturella, entrambi arrestati nella recente operazione contro la famiglia mafiosa di corso dei Mille, raccontando che i carabinieri li avevano messi nel mirino. Sapeva che c’era un’inchiesta in corso, a un suo fedelissimo glielo avrebbe riferito una fonte certa, cioè un poliziotto della squadra mobile: una talpa, insomma, che avrebbe spifferato dettagli utili per non farli catturare a cui gli investigatori stanno dando la caccia.

Romano aveva svelato ai suoi due amici di essere stato informato già dall’anno precedente che erano state avviate le indagini nei loro confronti, una notizia che sarebbe stata data da Vicè u frutta, individuato in Vincenzo Vella - anche lui finito in carcere nel blitz - soprannominato così perché gestiva una rivendita di frutta e verdura. Colui che gli aveva dato la soffiata, però, aveva fatto il suo nome anche a un carabiniere che lo voleva trasformare in un informatore: «Io non ho niente da dirgli», aveva tagliato il discorso Romano rifiutando la proposta. La discussione sullo stesso argomento della fuga di notizie era proseguita con una confessione: «A me da diversi anni non mi è arrivato mai niente», aveva affermato l’astro nascente della mafia di corso dei Mille, evidentemente perché i suoi continui movimenti non avevano consentito di raccogliere prove a suo carico.

Ma ora le cose stavano cambiando tanto è vero che era preoccupato perché gli investigatori lo avevano «cugghiutu», cioè avevano trovato elementi che avrebbero potuto incriminarlo. Il boss emergente aveva dato la colpa alla panineria che aveva aperto in via Pecori Giraldi: gli dava fastidio di essere continuamente ripreso anche in compagnia «di amici che sono al di fuori dei nostri discorsi», ovvero persone estranee ai loro affari criminali. Ma, a suo parere, si sarebbe sovraesposto perché chiunque lo andava a cercare nel locale e gli incontri venivano documentati dalle telecamere installate nei paraggi. In effetti gli agenti le avevano piazzate ovunque ma la presenza di questi occhi elettronici non era passata inosservata anche se c’era il diktat di non romperli perché un gesto del genere avrebbe potuto attirare l’attenzione degli «sbirri» facendoli «incanire (arrabbiare, ndr) di più». I sistemi di sorveglianza, installati dalle forze dell’ordine nel quartiere, non dovevano essere toccati, come del resto aveva insegnato l’esperienza della Vucciria perché quando i picciotti del mercato avevano deciso di staccare i dispositivi «se li erano andati a prendere pure a casa».

Prima delle manette, però, sono arrivate le pallottole che sarebbero state esplose da Camillo Mira: lui e il figlio Pietro avevano contratto un debito con Romano, il quale avrebbe imposto l’uso dei pannelli online su cui vengono visualizzate le quote degli eventi sportivi e delle macchinette slot per il gioco d’azzardo nel rione. I profitti, inizialmente appannaggio dei Mira, dovevano essere versati nelle casse della cosca ma i rapporti si erano incrinati per il fatto che i due non avevano versato 20 mila euro, frutto proprio dell’attività legata alle scommesse. Sarebbe stato questo il movente dell’omicidio: nello stesso agguato era rimasto ferito pure Alessio Salvo Caruso, ritenuto il braccio operativo della famiglia di corso dei Mille. In questi giorni è uscito dal coma, in ospedale gli hanno notificato due ordinanze di custodia cautelare in carcere e presto sarà interrogato. Assieme a lui i magistrati vogliono ricostruire come erano gestiti i diversi business del clan, a partire dal traffico di stupefacenti e dall’approvvigionamento delle piazze di spaccio del quartiere e come era organizzato il racket delle estorsioni ai danni di imprese e negozi.

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