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Palermo, la retata a Brancaccio messa a rischio dalla sparatoria

L’agguato mortale a Giancarlo Romano ha fatto scattare subito il blitz. Il boss si sentiva spiato

Omicidio Romano allo Sperone

È stato l’omicidio di Giancarlo Romano a fare scattare il blitz che ha decapitato i vertici del mandamento di Brancaccio, a Palermo. Da almeno due anni gli investigatori tenevano d’occhio l’astro nascente della famiglia mafiosa di corso dei Mille.

Prima di intervenire, però, volevano scavare ancora più a fondo sugli affari del clan e soprattutto su quanto avevano sentito nel corso di un’intercettazione, cioè che Romano sarebbe stato avvisato da una talpa – lui sosteneva da un poliziotto della squadra mobile – che gli avrebbe fornito informazioni utili per evitare la cattura. Solo che il conflitto a fuoco del 26 febbraio ha fatto precipitare la situazione costringendo i carabinieri a stringere i tempi. Il movente della sparatoria allo Sperone, in cui il boss ha perso la vita, sarebbe stato legato alla restituzione di 25 mila euro, una somma che Camillo e Pietro Mira dovevano restituire per la gestione delle scommesse. L’organizzazione mafiosa aveva deciso che i due – padre e figlio – non potevano continuare ad avere l’esclusiva del business e si erano rivolti a un’altra persona di fiducia. Secondo le indagini della squadra mobile, Romano - assieme agli altri mafiosi Giuseppe Arduino, Vincenzo Vella, Sebastiano Giordano e Settimo Turturella, finiti anche loro in carcere – si erano presentati a casa di Camillo chiedendogli la restituzione della somma: lui si era intimorito e aveva promesso che la consegna sarebbe avvenuta quello stesso giorno alle cinque del pomeriggio. Poi erano cominciate le intimidazioni ai titolari delle agenzie ai quali veniva caldamente raccomandato di togliere i pannelli elettronici installati dai Mira. «Io ti rispetto e ti voglio bene come un figlio, però i pannelli si devono levare», aveva detto Vella, infastidito dal fatto che continuavano a segnalargli che Pietro Mira non rispettava le disposizioni dei capi. «Che a me ogni volta vengono e mi dicono: Piero ha un sacco. Piero non ha niente, Piero ne ha uno, lo ha tolto, stop, non ne ha più Piero altre cose».

Evidentemente, negli ultimi due anni, le discussioni non avevano portato a una soluzione, anzi le cose erano degenerate fino al regolamento dei conti finale. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era arrivata quando Pietro era stato picchiato per un altro debito di 2.500 euro: il padre aveva cercato vendetta, e le drammatiche sequenze della sfida erano rimaste impresse in un video in cui due gruppi di persone erano in strada per sfidarsi armi in pugno.

Nel primo agguato si vedeva Camillo Mira che si avvicinava con una pistola nella mano destra andando incontro a Alessio Salvo Caruso, il luogotenente di Romano, il quale aveva sparato d’anticipo mancando il suo aggressore per poi fuggire ferito al braccio. Pochi minuti dopo gli uomini del clan avevano cercato i due rivali per rispondere all’attacco ma erano stati sorpresi dai colpi esplosi da Camillo: Romano era stato raggiunto dai proiettili ed era morto, Caruso era stato trasportato al Buccheri La Ferla per essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico all’addome. Ora è uscito dal coma ma, anche se tuttora ricoverato, è stato ufficialmente arrestato e, nei prossimi giorni, dovrebbe essere interrogato dai magistrati.

 

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