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Il blitz di Palermo, ascesa e caduta di Giancarlo Romano: «Noi abbiamo degli ideali, siamo contro lo Stato e la polizia»

Il modo di pensare del boss ucciso allo Sperone è descritto dalle intercettazioni della polizia

Il corpo di Giancarlo Romano a terra

«Noi abbiamo degli ideali dentro, che non facciamo morire mai e noi preghiamo il Signore che certe cose non finiranno mai… noi siamo contro lo Stato, siamo contro la polizia». Il pensiero di Giancarlo Romano, ucciso a colpi di pistola una settimana fa allo Sperone, è contenuto nelle intercettazioni captate dagli investigatori nell’ambito dell’inchiesta sul mandamento di Brancaccio.

Un capitolo dell’ordinanza di custodia è dedicata al suo profilo. Romano, che doveva essere arrestato per associazione mafiosa, nonostante la giovane età sarebbe stato protagonista di una rapida scalata all’interno della cosca, tanto da diventare reggente della famiglia di corso dei Mille. Legato a doppio filo con Tonino Lo Nigro, trafficante di stupefacenti detto «Ciolla», in più di un’occasione è stato sorpreso in compagnia di personaggi di spessore nel panorama di Cosa nostra. Nel maggio del 2015 era stato denunciato per l’aggressione a una guardia giurata al porto e pochi mesi prima, durante un controllo di polizia, era stato trovato in compagnia di pregiudicati per mafia. Il 6 maggio del 2018 è alla guida dell’auto fermata a Cassino, nel Lazio, sulla quale viaggiava Tonino Lo Nigro, che, scarcerato dopo un periodo di detenzione in Olanda, stava tentando di fare rientro in Italia con documenti falsi.

Nel 2022, dopo l’arresto di Lo Nigro, Romano ne avrebbe preso il posto, «raccogliendone l’eredità - spiegano i magistrati -. Aveva così consolidato il suo ruolo di mafioso assumendo funzioni apicali nella gestione delle attività illecite dell’organizzazione mafiosa sia nel settore delle estorsioni sia nell’ambito del traffico di stupefacenti, potendo vantare le conoscenze e le esperienze sul campo mutuate da Lo Nigro».

In raccordo con Arduino e Vella, si sarebbe occupato anche del settore del gioco d’azzardo e della gestione delle piazze di spaccio. Sarebbe stato lui, oltre a intervenire per dirimere diverse questioni, a gestire la cassa dell’organizzazione e le somme da destinare ai detenuti. Un ruolo di primo piano nella cosca, stroncato a colpi di pistola una settimana fa.

Anche Alessio Salvo Caruso, rimasto ferito nella sparatoria di lunedì scorso, ha un curriculum di non poco conto. Condannato a cinque anni di reclusione nel 2017 per alcune estorsioni ai danni di un’impresa impegnata in lavori di ristrutturazione in alcune scuole di Brancaccio, dopo la scarcerazione, avvenuta a ottobre del 2021, si sarebbe rimesso al lavoro per conto dei capi della cosca. In particolare, gli sarebbero stati affidati incarichi per mettere a segno intimidazioni contro i commercianti. Caruso sarebbe stato un uomo di fiducia di Giancarlo Romano e nel tempo avrebbe preso parte a riunioni ristrette tra capimafia. C’è un’intercettazione della primavera del 2022 in cui si parla della gestione del mercato della droga. E c’è un incontro in cui viene captato il classico fruscio delle banconote durante il conteggio del denaro.
I colloqui intercettati offrono uno spaccato su una certa mentalità mafiosa anche tra i più giovani. Romano, parlando con Caruso e Giuseppe Chiarello, si dice consapevole della scelta che ha fatto, di essere certo di avere ideali criminali e che, in caso di arresto, non si sarebbe mai pentito: «Io sono consapevole che la scelta di vita che ho fatto porta sofferenza alle persone a me vicine. Lo so, lo so».

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