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Mafia a Palermo, pizzo a tappeto e soldi a palate per la cosca della Noce

Dall'operazione Intero mandamento vengono fuori le preoccupazioni del capofamiglia Guglielmo Ficarra quando era il momento della riscossione e le casse si riempivano di denaro

La dichiarazione di Guglielmo Ficarra: qui in un fermo immagine dal video diffuso dalla polizia

«Troppi soldi ho dentro e non può essere, se arrivano a venire si fanno i bagni, si mettono a nuotare. Tieni, questi sono 2.500, conservali tu». A dicembre del 2020, periodo di riscossione del pizzo da parte degli esattori del racket, le casse dei boss si gonfiano e c’è l’esigenza di mettere al sicuro il danaro per evitare che le forze dell’ordine possano sequestrarlo durante perquisizioni e blitz. Le strategie dei mafiosi emergono a chiare lettere nelle intercettazioni dell’inchiesta dei magistrati e della Dda contro le famiglie della Noce e di Cruillas sfociata mercoledì a Palermo nell’operazione Intero mandamento, con nove arresti.

In un colloquio tra Guglielmo Ficarra di 63 anni, ritenuto il capo della cosca della Noce, e il suo fedelissimo Vincenzo Landolina, di 33 anni, entrambi finiti in manette, si fa riferimento proprio al danaro e ai negozianti da spremere. Il colloquio precede di pochi giorni la riunione che Ficarra avrà con il capo del mandamento, Carmelo Giancarlo Seidita, e Daniele Formisano, anch’essi arrestati nella retata, per stabilire «una nuova e più incisiva strategia nella raccolta del pizzo - spiega il giudice Alfredo Montalto nell’ordinanza di custodia - nell’ambito dell’intero territorio. Strategia messa subito in pratica da Ficarra e dai suoi sodali».

Al termine del vertice, le cimici registrano lo sfogo di Ficarra, invitato da Seidita con modi decisi e poco piacevoli a incidere con più efficacia sui negozianti, visto l’alto numero di nuove attività commerciali aperte soprattutto nella zona di corso Finocchiaro Aprile. «Devo andare a vedere di preciso, sono troppo assai vero - dice Ficarra a Landolina senza sapere di essere intercettato -. Ma io non mi ci trovo più... ci andavo là che io avevo tutto sotto controllo... ma non mi trovo più, mi sento spaesato perché non conosco più a nessuno. Prima li avevo a tutti nelle mani, ora sono tutti nuovi. Hanno dato a tutti il via libera, gli hanno fatto fare quello che hanno voluto. Allora devo andare a risolvere io, devo andare a scumminare (scombinare, ndr), a fare un macello io e fanno i patrunazzi (spadroneggiano, ndr). Si comprano magazzini senza fare sapere niente... fanno i patrunazzi».

Ficarra racconta di avere evitato, durante la discussione nel corso della riunione al vertice del clan, di alleggerire la sua posizione addossando le responsabilità a chi lo aveva preceduto: «Niente, niente. Ora io che so? A me mi scoccia perché non è che sono un tipo che magari… Chi c’era prima, che fa? Sapeva qua? Mi scoccia a portare questi discorsi». E precisa di essersi assunto ogni onere, impegnandosi a fare il possibile per riportare tutto il territorio e le relative attività economiche sotto il totale controllo della famiglia mafiosa, nonostante fosse conscio dei rischi connessi ad una sua sovraesposizione nella riscossione del pizzo: «Sto cominciando a sistemare... piano piano... ma c’è da lavorare. Non me la fido più, onestamente. Non è bello andare a smuovere, farsi vedere, è un bordello».

Secondo i pm Dario Scaletta e Giovanni Antoci, già nei mesi precedenti Ficarra «aveva intrapreso un’opera di riorganizzazione della famiglia mafiosa, arruolando nuove leve e pretendendo una maggiore efficienza dei sodali nello svolgimento delle attività criminali. Tra loro Benedetto Di Cara e Angelo De Stefano, ma anche Francesco Scaglione», al quale non lesinerà perentori inviti e richiami all’ordine, ritenendolo colpevole di troppa accondiscendenza nei confronti delle vittime. In particolare, Scaglione non avrebbe consegnato per tempo il denaro che avrebbe dovuto raccogliere in ragione della sua attività di esattore della cosca. Ficarra, inoltre, non si spiegava come mai l’uomo tardasse nel riferirgli le eventuali difficoltà incontrate nel compimento dell'attività: «No, ma io devo sapere qualche cosa, non è che possiamo, perché non è che quanto unci… vedi che c’è il problema. Ma io anche per sapere, perché se so che tu non me ne dai non me ne fotte niente, ma me lo deve dire».

Dal tenore delle parole di Ficarra, a detta degli inquirenti, si comprende come il denaro che attendeva da Scaglione gli avrebbe consentito di alimentare il fondo destinato per far fronte alle sempre più numerose necessità della famiglia: «Mi viene il cuore, perché li metto di lato... perché all’anno nuovo ci sono problemi. Se ne stanno sairbannu (accumulando, ndr)... troppi tutti insieme. Troppi». Il segno concreto che in città la macchina del pizzo produce ancora grandi guadagni e che in tanti continuano a pagare Cosa nostra e i suoi emissari.

 

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