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La morte di Biagio Conte: «Raccogliamo tutti quel mantello»

Foto di Alessandro Fucarini

«Adesso tocca a noi», dice don Pino Vitrano: è lui l'alter ego di Biagio Conte. Il sacerdote che gli è stato al fianco per trent'anni si affida ad una metafora alta e biblica per indicare la strada futura delle Missioni di speranza e carità. Don Pino racconta del vecchio Elia e del suo servo Eliseo. Il mantello caduto al profeta vicino alla morte e preso sulle spalle dal seguace, aprì loro la strada sul fiume Giordano. Elia, grato, chiese al suo maestro di avere lasciato in eredità il doppio del suo spirito. Il mantello di Biagio aspetta nuove spalle su cui appoggiarsi. «Una responsabilità per tutti – dice don Pino – per l'intera comunità».

Biagio se ne è andato troppo presto e dopo avere creato una poderosa macchina della misericordia. La Missione si è moltiplicata per nove: 600 persone accolte, famiglie intere precipitate in povertà, migranti, mariti e mogli abbandonati, pazienti refrattari alle cure mentali, volontari che hanno voglia di dare una mano e basta. Una macchina costosa. Biagio trovò presto un'intesa con don Pino, li fece incontrare il cardinale Salvatore Pappalardo, severo e pieno di intuito, agli inizi degli anni '90, quando non era ancora chiaro chi fosse questo giovane che andava vestito come un francescano e che persino Chi l'ha visto aveva dato per disperso, quando si diede alla prima immersione da eremita.

Era ragazzo Biagio e aveva già dentro il misterioso seme della ribellione al materialismo della fretta contemporanea. Quando ottenne il permesso – e non fu facile – di aprire la prima missione in via Archirafi, chiarì subito che non avrebbe mai fatto conti né toccato un soldo. Aveva fatto voto di povertà e dunque volentieri cedeva a don Pino l'onere di fare calcoli. E soprattutto di contenere i debiti, la grande fatica di adesso. Il mantello della solidarietà porta con sé la crisi di questi tempi fra centinaia di persone cui servire pasti tutti i giorni, bollette e spese a ogni pie' sospinto.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto: «Va onorato con concretezza». Biagio era un siciliano dalla corda pazza. Sarebbero d'accordo Pirandello prima e Sciascia dopo. Ce ne ha messo di tempo per essere capito nel profondo. A 27 anni, quando cominciò a coltivare passione francescana e bisogno di raccoglimento, vestito come un frate senza esserlo, apparve un po' pittoresco.

È picciotto, si disse, cambierà. Non cambiò. Anzi. Un passo alla volta, parole e azioni sempre più efficaci, più ascolto anche in ambienti ecclesiali, gli hanno procurato credibilità. Eppure, ha faticato. In via Archirafi non trovò certo l'accoglienza che a sua volta voleva dare ai senzatetto che abitavano già alla stazione. La periferia cementizia e un po' indifferente lo soffrì come un invasore pronto a far posto a chi nessuno vuole come vicino di casa. «Ma cu è chistu, ca manco è parrino?». Lui sorrideva, non si arrabbiava mai, se non quando gli si diceva di no alla concessione di spazi per i derelitti che in principio ha cercato uno per uno anche di notte e che infine hanno cercato lui a migliaia.

Ce ne è voluto di tempo perché fosse chiaro che questo giovane faceva sul serio e che aveva la corda pazza di chi ama il prossimo senza riserve, più delle istituzioni di cui è stato probabilmente il più grande supplente della storia contemporanea in Sicilia. Pasquale Scimeca, che gli ha dedicato un film nel 2014, racconta come non fosse entusiasta di vedere la sua vita al cinema, lo considerava un peccato di orgoglio. Lui che si era lasciato alle spalle un'esistenza borghese, viaggi, un futuro da imprenditore. Il padre e la madre gli sono sopravvissuti, ma non in buona salute, e poco sono riusciti a cogliere dell'epilogo della straordinaria avventura di questo figlio in fuga dagli agi. Le sorelle Grazia e Angela, con le famiglie, sono andate a trovarlo costantemente durante i suoi ultimi giorni. Nella grande casa di via Decollati, l'ex caserma dell'Aeronautica per la quale si era battuto come un leone, si muovono ragazzi africani, capelli rasta, musulmani con la croce al collo, palermitani della Kalsa, superstiti delle battaglie contro le dipendenze, stranieri scappati da tutto. Biagio è andato a morire lì, nella sua vera casa, in mezzo ai cittadini di un mondo più semplice la cui regola principale è dire: vieni, ti accolgo e non mi importa chi sei, cosa pensi e da dove sei partito. E magari dai una mano, impasti il pane, cuoci la pasta, impari un mestiere per ritrovare dignità.

Negli ultimi giorni don Pino Vitrano e i volontari hanno mantenuto una affettuosa disciplina. Tutti in fila dopo le preghiere di mezzogiorno e delle sei del pomeriggio, per poi salutare Biagio che lentamente si stava spegnendo. La speranza del miracolo citata in ogni momento, sebbene si fosse fatta largo la consapevolezza che il tumore arrivato tempo fa si fosse fatto strada in quel corpo esile e già fiaccato dai problemi alla schiena e dalla continua astensione dal cibo.

Biagio e il digiuno. Lo praticava probabilmente nella sua accezione ascetica, di ricerca spirituale e di spazio per l'anima. Una necessità per la quota mistica del suo carattere. Ma come negare che vi abbia fatto ricorso come in un'autentica lotta nonviolenta alla maniera di Gandhi e secondo gli insegnamenti di Aldo Capitini. Biagio rivoluzionario contro ogni forma di esclusione, contro l'area grigia della noncuranza, contro il razzismo che si annida negli angoli della modernità. «Il missionario laico che ha abbracciato il vangelo», ha detto ieri l'arcivescovo Corrado Lorefice, commosso dopo il commiato nella piccola stanza dove il medico Francesco Russo e il biologo Antonio Fulco lo hanno accudito e amato fino all'ultimo respiro. La sua divisa di fede era stato sempre un saio verde, ai piedi solo sandali, una barba prima un po' rossa e via via sempre più bianca. La croce portata a spalla nei suoi lunghi cammini in tutta Europa e fino in Marocco.

Biagio era conosciuto anche grazie ad un innato talento comunicativo. Conosceva l'efficacia dei media, il missionario di Palermo. Negli anni ha parlato tanto ai giornali e alle tv senza mai banalizzare il suo discorso. Sapeva di non poter fare a meno di quella notorietà a vantaggio dei fratelli con cui aveva deciso di dividere la vita. Appelli, richiami, bisogni, burocrazia soffocante. Trent'anni in cui è servito di tutto, dal cibo ai vestiti, dai medici all'anagrafe. Il cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo emerito di Palermo, ricorda l'incontro in cattedrale il 25 maggio 1996: «Gli sono stato vicino in modo particolare quando con un gesto tipico dei profeti più coraggiosi occupò un terreno abbandonato dello Stato – ricorda -, al suo fianco ho dovuto mediare con la magistratura e le autorità per fargliene ottenere una parte».

I racconti dei volontari sono carichi di gratitudine. Si narra che uno degli attuali portieri delle missioni si sia giovato di un miracolo. Colto da infarto, fu soccorso dall'équipe di un'ambulanza. Era privo di coscienza, salvo riprendersi e stabilizzarsi dopo l' arrivo di Biagio. Riccardo Rossi, volontario napoletano che gli è stato accanto negli ultimi anni anche come responsabile dei rapporti con la stampa, ha sposato Barbara Occhipinti, conosciuta in Missione. Se non è un miracolo anche questo!

Altro prodigio: ridisegnare la Palermo capace di slanci, di una spinta dal basso per sostenere, spesso nel silenzio, chi da solo non ce la fa. Gente comune fa doni concreti e immateriali, dal tempo libero del medico allo studente accompagnatore degli ospiti più anziani. Negli anni in cui Biagio dà il via al romanzo popolare della sua vita, Palermo è insanguinata. È schiacciata dalle scorrerie dei killer di mafia e prova a ribellarsi dopo averci rimesso le sue energie migliori: Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, padre Pino Puglisi, altri con la corda pazza della passione per le istituzioni democratiche. In quegli anni di risveglio delle coscienze Biagio Conte è stato il soccorritore nel perimetro misconosciuto della marginalità. Ha colmato uno spazio lasciato vuoto nel pieno della chiamata alla ricostruzione dopo la devastazione mafiosa e mentre il fenomeno migratorio diventava esodo epocale nella distrazione generale.

E tuttavia la solidarietà è stata tanta, soprattutto negli anni duemila. Spesso si doveva dire di no a chi voleva donare soprattutto vestiti usati. Le esigenze erano e sono altre tuttora, adesso che vengono a mancare la sua voce densa di carisma e l'eremitaggio di protesta contro una società che gli piaceva sempre meno. Ne aveva parlato anche a papa Ratzinger e a papa Francesco, che aveva ospitato in missione fra i suoi fratelli. Soffriva nel corpo e soffriva nel suo intimo, ma si serviva di un sorriso largo e pieno di fascino perché non concepiva che si perdesse la speranza. Il mantello di Biagio Conte giace lì per terra ed è tempo, urgente, che venga raccolto e posto sulle spalle di tutti per non disperdere il coraggio che il missionario laico lascia in eredità a Palermo assieme al doppio del suo spirito. Come il profeta Elia fece col suo servo Eliseo.

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