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Mafia-politica, Caselli a Di Lello: «L’azione penale va esercitata anche con gli alleati dei clan»

Gian Carlo Caselli replica a Giuseppe Di Lello

In una lettera al Direttore del Giornale di Sicilia l'ex procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli replica all'ex magistrato Giuseppe Di Lello, che in una conversazione con il professor Costantino Visconti, editorialista del Giornale di Sicilia, aveva criticato alcune iniziative giudiziarie degli anni successivi a quelli del pool antimafia, del quale Di Lello faceva parte assieme ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Cliccando qui il testo della conversazione fra Visconti e Di Lello.

Di seguito il testo della lettera di Caselli.

Gentile Direttore, le invio alcune precisazioni circa l’intervista del professor Visconti all’ex magistrato Di Lello del 6 marzo scorso, necessarie per tutelare me stesso e la procura di Palermo che ho avuto l’onore e l’onere di dirigere dopo le stragi del 1992 (mentre il dottor Di Lello si avviava a lasciare la magistratura – sempre servita con onore - preferendo cimentarsi nella carriera politica).

Di Lello parla di «ondata giustizialista», di magistratura con «l’idea che toccasse [a lei] salvare l’Italia», di «accuratezza delle indagini spesso passata in secondo piano», di «processi celebrati su ipotesi accusatorie risibili, specie quando hanno riguardato esponenti politici», di «iniziative giudiziarie che non dovevano neanche essere intraprese». Dopo di che esemplifica, limitandosi (bontà sua) «solo a Palermo e alle questioni di mafia» e cita «le vicende giudiziarie che hanno coinvolto esponenti politici di primo piano, da Mannino a Musotto e Giudice».

Ora, essendo stati questi processi tra quelli avviati dalla «mia» Procura, è chiaro con chi ce l’ha. Di Lello dimentica gli «anni del coraggio di Stato» (formula usata da Livia Pomodoro commemorando Liliana Ferraro), quando c’era il rischio concreto - con le stragi del 1992 - che la nostra democrazia crollasse. Una forte reazione corale (forze dell’ordine, magistratura, società civile, politica una volta tanto unita) ha invece prodotto risultati che ci hanno salvati dall’abisso. Di Lello dimentica questi risultati, che per la magistratura riassumo con i 650 ergastoli all’ala «militare» di Cosa nostra (dato man mano aggiornato dal collega Vittorio Aliquò). Ma l’azione penale - obbligatoria - va esercitata sia contro i mafiosi «di strada», sia contro i complici e alleati. Altrimenti si usa a questi un trattamento privilegiato, non uguale per tutti come vuole la Costituzione. E non procedere (ricorrendo i presupposti in fatto e diritto) oltre che illegale sarebbe disonesto e vile. Non si pretende - è ridicolo – di essere pensati come avvolti nel tricolore per aver fatto il proprio dovere, ma solo un po’ più di attenzione alla verità.

In ogni caso, a me pare che Di Lello ricordi male le vicende Mannino e Musotto. Ho già sostenuto (pag. 7-9 de Lo stato illegale, scritto con Guido Lo Forte, dove si fa anche la storia di altri importanti processi «politici») quel che ora sintetizzo. Per Mannino la Cassazione ha modificato il proprio orientamento in tema di concorso esterno rispetto a quello vigente all’inizio del processo, intervenendo – a «partita» aperta, dopo una condanna in appello – per innalzare decisamente l’asticella del criterio probatorio, con decisione criticata nel merito anche da un garantista doc come il professor Giovanni Fiandaca. Per cui, la tesi delle «ipotesi accusatorie risibili» mi sembra piuttosto audace.

Anche per Francesco Musotto le cose non sono così semplici come le fa Di Lello. Insieme a lui (assolto) vi erano altri quattro imputati, tutti condannati, tra cui suo fratello Cesare. L’accusa per entrambi era di aver ospitato nella villa di famiglia il boss latitante Bagarella. Un fratello assolto, l’altro condannato per lo stesso fatto nella casa comune. L'esordio della linea difensiva «a mia insaputa» che sarà poi utilizzata da altri esponenti politici? In ogni caso, parlare di iniziative giudiziarie che «non dovevano neanche essere intraprese» è come minimo un fuor d'opera.

Quanto a Giudice, non sono in grado di interloquire più di tanto perché ho lasciato Palermo nel 1999 e il processo è arrivato a sentenza di primo grado nel 2007, interrompendosi poi per il triste evento della morte di Giudice. Ma se, come mi sembra di ricordare, la Camera negò l’autorizzazione all’uso dei tabulati, la consistenza delle accuse di Di Lello andrebbe misurata anche tenendo conto dell’amputazione di questo mezzo di prova. Peraltro, a tali accuse si potrebbe quanto meno rispondere che è solo sotto le dittature che il Pm deve avere sempre ragione; in democrazia non funziona così.

In realtà la Procura di Palermo del dopo stragi, consapevole che il sacrificio di Falcone e Borsellino e di quanti erano morti con loro imponeva ancor più di fare il proprio dovere fino in fondo, ha rifiutato ogni scaltrezza, per non macchiarsi di vergogna. La parola «scaltrezza» è lo stesso Di Lello ad usarla nel suo libro Giudici (1994), che Visconti cita per obiettare che Di Lello stigmatizzava la magistratura del passato per la sua indolenza (scaltrezza) nei confronti del potere, mentre oggi la critica per il motivo opposto. E da un fine giurista come l'ex magistrato mi sarei aspettato una risposta meno banale dell'invito a guardarsi i film di Perry Mason...

L’intervista contiene poi accuse alla magistratura in generale: invadenza, arroganza, assenza di interiorizzazione del principio di separazione dei poteri. Scherzando, verrebbe da pensare che dieci anni di politica siano riusciti, alla fine, a «contaminare» quello che era stato - con il pool di Falcone - un ottimo magistrato.

Infine, sostiene Di Lello che «il ciclo» dei Pm nominati al vertice del DAP (circostanza per lui inaccettabile) è stato «inaugurato con la nomina... dell’allora procuratore di Palermo nel 2001». Sono di nuovo io... Ma è sbagliata la data e soprattutto si dimentica Nicolò Amato, un grande Pm nominato ben prima di me a capo del DAP.

* magistrato, dal 1993 al 1999 capo della Procura di Palermo

 

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