I suoi colleghi non li assolve ma - diversamente da quanto ha fatto Fiammetta Borsellino sul Giornale di Sicilia - nemmeno li giudica: «Non è agevole formulare una valutazione su chi si occupò di via D’Amelio - dice Piergiorgio Morosini - senza conoscere la sconfinata mole di atti dei processi. Non mi sottraggo - aggiunge l’ex Gup del processo Trattativa ed ex consigliere del Csm - ma va detto che in questa indagine tanti soggetti, non appartenenti all’ordine giudiziario, hanno agito perché la verità non venisse a galla. Non è l’unico caso: dal delitto Mattarella a piazza Fontana, Ustica, Bologna…».
Piergiorgio Morosini ha 58 anni, è di Rimini ma a Palermo ha vissuto tutta una carriera da giudice, anche se da qualche mese ha cambiato vita: ora è passato dall’altra parte, è sostituto procuratore generale in Cassazione. Ed è anche tornato a Roma, dopo l’esperienza a Palazzo dei Marescialli (2014-2018). Il lungo colloquio tra l’editorialista del Giornale di Sicilia Costantino Visconti e Fiammetta Borsellino, pubblicato giovedì, ha colpito il neo Pg, soprattutto per la parte riguardante le sferzanti valutazioni della figlia più giovane di Paolo Borsellino. Il «covo di vipere» in cui il magistrato ucciso trent’anni fa visse gli ultimi anni. E la rabbia che lei, Fiammetta, prova «nei confronti di chi, chiamato ad amministrare la giustizia, non fece il suo dovere».
Dottor Morosini, lei è passato dal giudicare a sostenere l’accusa. E questo è un atto d’accusa bello e buono.
«Non mi permetto di dire alcunché sui sentimenti e sulle parole di una persona direttamente coinvolta, dal punto di vista affettivo ed emotivo, in una vicenda così tragica. Dico solo che la magistratura, con la sua professionalità e anche con tutti i suoi limiti, è stata chiamata a una durissima prova: non solo gli uomini di Cosa nostra hanno operato perché la verità non venisse a galla, ma anche altri soggetti, estranei all’organizzazione, hanno fatto lo stesso. E non è stato un caso isolato».
L’Italia è il Paese delle mezze verità.
«Non penso solo ai grandi e terribili fatti come piazza Fontana, l’Italicus, il Dc9 di Ustica, la strage alla stazione di Bologna, ma anche a fatti siciliani come il delitto Mattarella, il duplice omicidio La Torre-Di Salvo, la strage Dalla Chiesa. La Cassazione ne ha acclarato la matrice politico-mafiosa, ma hanno pagato solo i mafiosi».
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque.
«Via D’Amelio rientra tra le vicende in cui pezzi mancanti, zone d’ombra e verità parziali si sono sommati fra di loro. Non voglio esprimere giudizi sui colleghi né è giusto che i magistrati si sottraggano al giudizio dell’opinione pubblica: questa anzi è una caratteristica della cultura del diritto europeo, ma molto dipende dalla natura dei fatti su cui si indaga. E per via D’Amelio e piazza Fontana la sensazione forte è di operazioni sotto falsa bandiera a cui si sommarono depistaggi successivi».
Colossale depistaggio, è stato definito. Però che Vincenzo Scarantino fosse un pentito farlocco si vedeva lontano chilometri.
«Non entro nel merito. Vorrei fare solo una riflessione di carattere generale e affermare che il depistaggio certo non esime dal continuare a cercare la verità. Quanto alle critiche dei familiari delle vittime, è giusto che l’ordine giudiziario sia sottoposto e accetti le loro valutazioni, anche le più severe. Senza però trascurare la difficoltà di lavorare in certi contesti».
C’è chi semplifica dicendo che alla fine i magistrati non pagano mai. Il giudizio della Consulta sul referendum non aiuta a smentire.
«Ed è appunto una semplificazione. Non c’è una responsabilità civile diretta, così come in tutte le democrazie occidentali più avanzate. Esiste però quella indiretta, per dolo e colpa grave. E ci sono anche le sanzioni disciplinari e penali, nei casi più gravi».
Fiammetta Borsellino dice pure che il padre non avrebbe mai scritto un libro su indagini in corso.
«Più che nella chiave critica nei confronti dei colleghi la vedo in senso positivo: Paolo Borsellino è un esempio di cui oggi c’è grande bisogno. Pochi sanno che fu anche un giudice civile con grande passione per la ricerca giuridica: gli piaceva cioè dare sostanza a quel che faceva, più che avere verità in tasca. Come lui Falcone».
Il covo di vipere è sempre lì? O anche in altri palazzi di giustizia, magari?
«Falcone e Borsellino operarono in un contesto sociale e professionale completamente diverso. Non c’era ancora un’opinione pubblica formata e attrezzata per accettare determinate verità nei processi di mafia. La società civile e il senso dell’antimafia sono cresciuti nel tempo, mentre l’ambiente giudiziario aveva limiti anche professionali. E loro si trovarono isolati».
Ieri le vipere, oggi il caso Palamara.
«Sono fatti che indubbiamente disorientano. Ma non è giusto valutare tutta la categoria dall’angolo prospettico di un magistrato che non fa più parte dell’ordine giudiziario. Nella parte più ampia la magistratura è composta da persone serie, che nessuno conosce, che operano senza la grancassa mediatica».
Anche senza Palamara non era facile essere Falcone e Borsellino.
«No, non lo era, anche se non si rassegnarono a isolamento e vittimismo».
Che ne pensa della figlia della vittima - peraltro eccellente - che incontra in carcere i carnefici del padre?
«Nel colloquio da voi pubblicato ci sono frasi che colpiscono: anche il peggior criminale è comunque un uomo. E quello di Fiammetta Borsellino con i Graviano non è un esempio isolato: richiama per certi versi l’incontro tra brigatisti e familiari delle vittime, ad esempio tra Adriana Faranda e Agnese Moro. Iniziative ispirate al tema della giustizia riparativa, che ha come modello le commissioni per la verità e la riconciliazione in Sudafrica».
C’è chi l’ha vista come una sorta di legittimazione: oggi dei capimafia, ieri dei terroristi.
«E io non sono per niente d’accordo. Chiunque sia il condannato, la sua dignità va riconosciuta».
Con le nuove regole sull’ergastolo ostativo non ci ritroveremo i boss stragisti in circolazione?
«Le indicazioni della Corte costituzionale, da tradurre in legge, dovranno trovare un bilanciamento con le esigenze di tutela della collettività. Non ci saranno automatismi nella concessione dei benefici: si potranno dare anche a chi non collabora, ma bisognerà valutare in concreto, caso per caso, le controindicazioni. Le organizzazioni e le dinastie criminali non sono finite: ci sono cognomi nei processi di oggi che coincidono con quelli dei mafiosi dei processi degli anni ’30. Sono stati fatti studi, quelli di oggi sono discendenti di quelli di allora. È un dato che ci aiuta a comprendere come anche dopo tanti anni di carcere, senza una collaborazione con la giustizia, certi personaggi restino estremamente pericolosi, se ritornano nell’ambiente da cui provengono».
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