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Gli arresti per il ferimento di viale Michelangelo, Guttuso su TikTok minacciava chi aveva fatto il suo nome: «Siete infamoni»

«Sciacquatevi la bocca con il sale e l’acido muriatico quando parlate di me». Frasi pronunciate in dialetto e tradotte dagli investigatori

Viale Michelangelo, a Palermo

Un video su TikTok con toni minacciosi per annunciare la visita dei carabinieri e lanciare pesanti intimidazioni a quanti avevano fatto il suo nome dopo la sparatoria. Giuseppe Guttuso non sapeva che in realtà per lui stava per scattare l’arresto nell’ambito di un’indagine per spaccio di droga a Palermo. Guttuso, già ai domiciliari, è finito adesso in carcere assieme a Pier Paolo Davì nell'ambito dell'indagine sull'inseguimento e il ferimento con colpi di pistola sparati da auto ad auto lo scorso maggio in viale Michelangelo.

Il contenuto di quel messaggio in dialetto stretto è confluito nell’ordinanza di custodia ed è stato tradotto in italiano dagli inquirenti: «Ora vi guardate l'altro teatrino, ho tutti i carabinieri a casa. Intanto mi vado a consegnare perché sono un uomo d’onore. Però, dato che sono stato arrestato ingiustamente, assai assai ti do un mese e sono fuori. Poi chi è che ha parlato e mi ha infamato ingiustamente si prende le sue responsabilità. Infamoni che siete! Sciacquatevi la bocca con il sale e l’acido muriatico quando parlate di me. Infami, depravati e senza dignità».

A commentare il messaggio sono stati, non senza preoccupazione, anche l’uomo ferito da uno dei colpi di pistola esplosi il 22 maggio e il figlio, finiti nel mirino di Guttuso. Il colloquio è stato intercettato dai carabinieri, che hanno ascoltato le conversazioni anche di altre persone. Qualcuno ha affermato che Guttuso si era pentito di avere fatto tanto rumore, di avere organizzato la spedizione punitiva a suon di colpi di pistola. Precisando che quel giorno l’uomo era ubriaco. Un suo parente, conversando con la compagna, si rimproverava di non essere intervenuto per evitare la sparatoria: «Ho sbagliato io che dovevo pigliare Paolo a pugni... mala fiura, passo per brunello. Si ammazzavano con le mani e finivano tutte cose... no che gli vai a sparare...».

Dalle pagine dell’inchiesta non emergono i motivi della lite del pomeriggio che ha innescato poi la sparatoria, ma che uno degli indagati fosse armato emerge a chiare lettere anche da un altro colloquio tra il figlio del ferito e un parente. «Mentre ci allontanavamo, mi voltavo e vedevo quel tizio che estraeva dal marsupio una pistola avvolta in dei tovaglioli, che puntava in nostra direzione». Il segno che le intenzioni non erano delle migliori. Ma anche che, così come dimostrato dall’inchiesta sfociata nel blitz del maggio scorso, i personaggi legati alle organizzazioni criminali che agiscono tra Borgo Nuovo e il Cep hanno disponibilità di armi e sono pronti a usarle con disinvoltura. In un capitolo dell’indagine si parla a chiare lettere di pistole e fucili, della necessità di andare sul mercato per accaparrarsi un «ferro» di quelli tosti, una mitraglietta in grado di sparare più volte a ripetizione, nel caso di eventuali azioni per difendersi dagli assalti dei rivali.

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