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Brioscià a Palermo, l’invenzione di un brand che non temeva rivali e vertenze

L’ascesa di un imprenditore che voleva espandersi nel mondo con un franchising: ma col dipendente che voleva fargli causa fece parlare «lo zio»

Tra Mario Mancuso e Michele Micalizzi i rapporti erano antichi e consolidati già a partire dal 2017 quando il boss si trovava a Firenze. Poi il collegamento si era fatto addirittura più stretto nel momento in cui l’anziano uomo d’onore, assecondando il desiderio di Mancuso di espandere il proprio business commerciale, era divenato il socio occulto di Brioscià.

L’imprenditore aveva scelto uno slogan ammiccante e si era rivolto ai migliori esperti di pubblicità per sfondare nel mercato: c’era riuscito in breve tempo, tanto che il suo marchio era ormai un vero e proprio punto di riferimento per chi voleva consumare un gelato in città. Ma, almeno a parole, il progetto - supportato secondo le indagini della guardia di finanza da Cosa nostra - sarebbe stato ben più ambizioso.

«Cominciare da Palermo e poi aprire una catena in franchising in giro per il mondo è l'obiettivo - aveva detto Mario nei giorni successivi al lancio del suo brand -. Il nostro modello sono le gelaterie Grom, nate dall'idea di due soci-amici piemontesi che oggi hanno gelaterie anche in Francia, Stati Uniti e Giappone: fatturano un mare di soldi e puntano costantemente alla ricerca maniacale della qualità». Micalizzi senior, però, aveva voluto il figlio Giuseppe, pure lui dietro le sbarre dall’anno scorso, per altre ragioni (e ora indagato a piede libero), all’interno della società. Ufficialmente un dipendente della Magi, in realtà era gli occhi e le orecchie del padre all’interno dell’azienda e l’uomo a cui Mancuso doveva rivolgersi se c’erano problemi. Come nel caso del dipendente «in nero» che era stato licenziato ma che pretendeva lo stesso la buonuscita.

«Se ti faccio vertenza - aveva urlato al telefono il dipendente - mi devi dare 60 mila euro, io devo pagare le bollette. Ora ti faccio vertenza subito subito, così tu mi dai 60 mila euro, anziché 16 mila», cioè la cifra che Mancuso era disposto a sborsare per mettere fine alla questione. Poi gli aveva detto: «Se non paghi vedi che ti scanno come un capretto». Ed era poi intervenuto pure il padre del ragazzo per pretendere che il pagamento venisse effettuato al più presto. Dopo la lite il proprietario di Brioscià si era preoccupato e aveva chiamato Giuseppe Micalizzi che, in un primo momento, aveva minimizzato la portata della diatriba: «Lasciali perdere, Mario. Non ci pensare, sono gli ultimi cristiani della terra». Poi però lo «zio Michele» era andato in soccorso e, senza una minaccia dichiarata, aveva messo a posto tutto con una telefonata: «Fammi capire - aveva spiegato al dipendente - sto sentendo discorsi strani. Intanto tuo papà non si può permettere a parlare in una certa maniera. Io ti ho detto chiaro, e anche a tuo papà, che la cifra che Mario ti poteva dare era quella lì». Alla fine l’«uomo d’onore» aveva proposto una mediazione e l’accordo fu trovato: 30 mila euro la somma da sborsare, la metà di quella dovuta e senza la seccatura di dovere affrontare una causa davanti al giudice del lavoro.

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