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Palermo, scommesse, pannelli imposti dalla mafia e debiti: così Mira perse la testa e prese la pistola

Diventa sempre più chiara la ricostruzione dell'omicidio allo Sperone. Passa da una spedizione punitiva a casa del killer reo confesso

Il movente dell’omicidio allo Sperone sarebbe legato a un cospicuo debito per la gestione delle scommesse che Camillo e Pietro Mira avevano contratto con la famiglia mafiosa di corso dei Mille, di cui Giancarlo Romano era il reggente. Quest’ultimo, ucciso nella sparatoria di lunedì scorso, avrebbe imposto l’uso dei pannelli online su cui vengono visualizzate le quote degli eventi sportivi e delle macchinette slot per il gioco d’azzardo nel quartiere. I profitti di questi affari, inizialmente appannaggio dei Mira, dovevano essere versati nelle casse del clan di Cosa nostra, ma i rapporti si erano incrinati per il fatto che i due non avevano versato 20 mila euro, frutto proprio dell’attività legata alle scommesse. Per questo motivo l’organizzazione aveva deciso che non potevano continuare ad avere l’esclusiva del business e si erano rivolti a un’altra persona di fiducia a cui doveva essere affidato il settore.

Secondo le indagini della squadra mobile, Romano, assieme a Giuseppe Arduino, Vincenzo Vella, Sebastiano Giordano e Settimo Turturella (tutti arrestati con il blitz di ieri), si era presentato a casa di Camillo, chiedendogli la restituzione della somma: lui si era intimorito e aveva promesso che la consegna sarebbe avvenuta quello stesso giorno alle cinque del pomeriggio. In particolare era stato Turturella a rimproverarlo per il notevole ritardo con cui stava restituendo la somma di denaro per la quale lui stesso aveva garantito, facendogli fare «malafigura» con gli altri: «Amunì, perché non vedi di sistemare questa situazione, Camillo? Mi trovo qua per farti capire che io per te sono stato garante e io ho preso la faccia e l’ho appiccicata al muro. E mi hai fatto fare malafigura chi me frati (con i miei fratelli, ndr)».

Poi erano cominciate le intimidazioni ai titolari delle agenzie ai quali veniva «caldamente» raccomandato di togliere i pannelli telematici installati da Mira. E lui si era lamentato con Vella perché un picciotto era andato da lui «tutto spaventato», per riferire quanto gli era stato ordinato di dire «dai cristiani della zona». Il mafioso, però, aveva ribadito che gli apparecchi dovevano essere sostituiti, e anche velocemente, perché in tanti gli avevano fatto notare che «Piero (Mira, ndr) ha pannelli dovunque». L’ordine era stato diretto, così come si evince dall’intercettazione: «Io ti rispetto e ti voglio bene come un figlio, però i pannelli si devono levare», aveva replicato Vella, infastidito dal fatto che gli altri uomini del clan continuavano a segnalargli che Mira non rispettava le disposizioni dei capi. «Che a me ogni volta vengono e mi dicono: Piero ha un sacco. Piero non ha niente, Piero ne ha uno, lo ha tolto, stop, non ne ha più Piero altre cose».

Evidentemente, negli ultimi due anni, le discussioni non avevano portato a una soluzione, anzi erano degenerate fino al regolamento dei conti. Prima con l’aggressione ai Mira nel magazzino di via XVII Maggio da parte di Alessio Salvo Caruso, rimasto poi gravemente ferito nel conflitto a fuoco nel quale Giancarlo Romano era stato ucciso proprio da Camillo Mira, come lui stesso ha confessato al giudice.

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