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Il blitz antimafia di Palermo: «Parli con me...», così Francesco Mulè proteggeva il figlio Massimo

Massimo Mulè

Il pensiero principale di Francesco Mulè, classe 1946, era garantire l’impunità del figlio Massimo, «u’ nicu», 50 anni e un passato criminale pesante, come quello del padre settantaseienne. «Deve parlare con mio figlio? Deve parlare con me... a mio figlio lo deve lasciare... a me mi arrestano e mi mandano ai domiciliari...», diceva l’anziano capomafia alla guida del mandamento di Porta Nuova, a Palermo, a chi voleva instaurare un rapporto diretto con «u’ nicu». È un’intercettazione che svela le prudenze dei vecchi boss alle prese con il solito mondo di mafia che un po’, attorno, è però cambiato: le ondate di arresti e il pizzo che viene pagato a tappeto «persino dalle bancarelle» o da un ombrellone al Capo, a Ballarò, alla Kalsa e alla Vucciria; le nuove leve che scalpitano per entrare in Cosa nostra dove però «ci sono troppi fanghi» ma anche tanti da «recuperare» dopo le scarcerazioni; gli interventi per incassare contanti anche organizzando delle riffe di quartiere e destinarli alle famiglie dei detenuti ma anche uno sguardo agli affari di casa e l’invito al figlio a tenere per sé un po’ di soldi del racket: «Tu questi pigghia e li pigghi... L’hai capito, a papà?», raccomandava Mulè al figlio.

Uno spaccato di vita criminale portato a galla dall’ultimo blitz che ha provocato nove fermi: c’era il pericolo di fuga per l’ormai imminente verdetto in appello del processo «Cupola 2.0» dove Massimo Mulè è imputato. Ma le indagini in corso sugli affiliati svelano che c’è chi si stava preparando ad «espatriare» per sottrarsi ai nuovi ormai prossimi arresti temuti sia per le inchieste senza sosta che hanno portato a fermi anche quest’estate - dopo il delitto avvenuto alla Zisa di Giuseppe Incontrera - ma anche per una fuga di notizie i cui contorni restano ancora indefiniti.

In cella sono finiti Francesco Mulè, detto «Zu Francu», lo storico capomafia finito in carcere più volte e forte di un legame con i boss che risale ai tempi del «cassiere della mafia» Pippo Calò e di Salvatore Cangemi; il figlio Massimo; Gaetano Badalamenti, 53 anni, detto «U zio», «Mangeskin», «U romano», «Roma», «Ricotta» «Capitale»; Francesco Lo Nardo, 63 anni, detto «Sicarieddu» o «Sicarru»; Giuseppe Mangiaracina, 43 anni, detto «Pitbull»; Alessandro Cutrona, 38 anni, detto «Tettina», «U Pacchiuni»; Calogero Leandro Naso, 28 anni, detto «Leo» o «U pugile»; Salvatore Gioeli, 56 anni, detto «Mussolini» o «Benzina» o «Pompa»; Antonio Lo Coco, 68 anni, detto «Peppuccio».

I fermi sono stati emessi dalla Direzione distrettuale antimafia guidata dal procuratore Maurizio De Lucia, col coordinamento dell’aggiunto Paolo Guido e dei sostituti Giovanni Antoci, Luisa Bettiol e Gaspare Spedale. Le indagini - con intercettazioni e pedinamenti - sono del Nucleo investigativo del reparto operativo del Comando provinciale dei carabinieri, guidati dal tenente colonnello Salvatore Di Gesare. I reati a vario titolo vanno dall’associazione mafiosa, all’estorsione, al traffico e allo spaccio di stupefacenti. E svelano i contatti attuali dei Mulè padre e figlio con il gotha di Cosa nostra in città: da Tommaso Lo Presti «il lungo» a Giuseppe Di Giovanni, con i quali si incontravano nei summit in cui pianificavano le strategie della mafia anche davanti all’esigenza di dover coprire i «vuoti in organico» provocati dagli arresti. Una sala da barba in via Torino, passeggiate lontano da orecchie indiscrete in via dei Tartari, i luoghi dove i boss si incontravano.

Il capitolo delle estorsioni racconta i movimenti per costringere diversi commercianti a pagare: tra i destinatari delle richieste il titolare di un bar in piazza Magione, un ristorante del Foro Italico, un edicolante di corso Tukory. In un’agenda conservata nel negozio di toelettatura per animali di un nipote di Mulè c’è un elenco di nomi e di cifre che sono il libro mastro del racket, imprese edili incluse: anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il cielo del business di Cosa nostra. Dove c’è spazio per il traffico di droga, organizzato secondo le rigide regole che prevedono la suddivisione di «piazze di spaccio» affidate a spacciatori autorizzati e che devono fare riferimento solo ai «capi piazza» autorizzati dal clan: sono loro che - secondo l’accusa- devono occuparsi di garantire il rispetto delle regole che prevedono la vendita di partite di droga da fornitori di fiducia. Ai Mulè e ai loro affiliati di fiducia anche un compito antico: comporre i dissidi e gestire il commercio nello storico mercato di Ballarò, autorizzare l’apertura di esercizi commerciali e persino di un ombrellone gestito da un immigrato del Bangladesh, controllare il contrabbando di sigarette. E, infine, un’incombenza un po’ antica ma evidentemente dura a morire. Mulè padre spiegava a Lo Nardo che bisognava intervenire per disciplinare i rapporti coniugali turbolenti tra un affiliato e la moglie per evitare che tutto degenerasse, col rischio di provocare attenzioni esterne sulla cosca: «Ama stare attenti! Questo n'ava fare arrestare!».

 

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