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I soldi ai detenuti e le intimidazioni ai concorrenti, l'ascesa mafiosa di Agostino Giocondo a Belmonte

I soldi alle famiglie dei detenuti, le prepotenze e le intimidazioni nei confronti dei concorrenti in affari, la risoluzione di controversie private. I punti del manuale mafioso Agostino Giocondo, 52 anni, sembra seguirli tutti quanti.

Giocondo è considerato una figura emergente della mafia di Belmonte Mezzagno. Uno degli arrestati nell'operazione Limes che giovedì (il 7 aprile) ha portato in carcere in tutto nove persone.

L'aiuto alle famiglie dei detenuti

La caratura di Giocondo viene confermata nel suo coinvolgimento nelle dinamiche relative al mantenimento dei detenuti del clan. Questo, scrive il gip Antonella Consiglio "costituisce senza ombra di dubbio uno degli strumenti di sopravvivenza delle famiglie mafiose in quanto oltre a dimostrare la vicinanza agli associati in carcere, serve a garantire la continuità anche a seguito dei blitz delle forze dell'ordine".

Nel corso dell'inchiesta si osserva e si documenta come Giocondo si fosse attivato in prima persona per garantire il proprio sostegno alla famiglia di Salvatore Francesco Tumminia, dopo l'arresto del 15 gennaio 2020.

Giovan Battista Martini (anche lui indagato nell'operazione Limes) teme di essere arrestato e chiede all'amico Agostino di occuparsi della sua famiglia ed in particolare della figlia. In un'altra intercettazione Giocondo parla con il figlio di Tumminia al quale spiega come il padre avesse disposto di vendere un bene, in realtà mai identificato dagli investigatori, per racimolare il denaro sufficiente a mantenere la famiglia durante la sua detenzione. Di più: Agostino Giocondo si premurava che i figli di Tumminia non venissero coinvolti in operazioni economiche avventate e consigliava loro gli investimenti che riteneva più opportuni, mettendoli in contatto con persone di sua conoscenza.

La "soverchieria" nei confronti dei concorrenti

In virtù del ruolo ricoperto all'interno del clan di Belmonte Mezzagno, Agostino Giocondo era in grado di influenzare anche le iniziative economiche degli altri abitanti del territorio. Alcune intercettazioni telefoniche, infatti, hanno permesso di accertare che Giocondo aveva costituito una società di fatto con Pietro Gaeta (un altro dei nove indagati in questa indagine), con lo scopo di commercializzare prodotti per la casa e generi alimentari, sfruttando il fatto che Gaeta già gestiva un negozio del genere in un chiosco a piazzetta Anime Sante, sempre a Belmonte Mezzagno.

Per evitare l'insorgere di altre forme di concorrenza, Giocondo e Gaeta avevano vietato ad un altro negoziante di vendere in zona gli stessi rotoloni di carta assorbente commercializzati anche da loro e per questo avevano impedito al fornitore comune di consegnare la merce ai loro competitors.

Giocondo e Gaeta, secondo gli investigatori, non si limitavano a condurre una regolare attività commerciale "ma intervenivano sul funzionamento dei meccanismi di libera concorrenza alterando lì in virtù della forza di intimidazione che veniva dalla loro appartenenza a cosa nostra".

Da alcune intercettazioni viene fuori che Gaeta aveva imposto ai concorrenti di non vendere più la loro merce a Belmonte Mezzagno ma soltanto a Misilmeri. Lo stesso Gaeta si vanta con il socio della "soverchieria", ovviamente alludendo alla modalità mafiosa con cui avevano di fatto costretto gli altri negozianti a vendere altrove.

L'auto rubata

Ma a Giocondo ci si rivolgeva anche per fatti meno importanti e per la risoluzione di controversie di natura privata, come il furto di un'auto.

Nel gennaio del 2021 attraverso una microspia installata a bordo della Fiat Punto di Giocondo viene infatti documentata una richiesta ritrovamento di una Fiat Panda rubata a Palermo.

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