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Due anni di pandemia, Costa: "Il Covid ha cambiato la mia vita ed è stata una lezione per tutti"

Renato Costa, commissario Covid a Palermo

I due anni di pandemia hanno reso familiari professionisti che nel corso dell'emergenza Covid sono diventati protagonisti.

Renato Costa, 64 anni il prossimo 11 aprile, è il medico a capo della struttura commissariale per l'emergenza Covid a Palermo. L'incarico gli è stato conferito nel settembre 2020, dopo la fine del lockdown, quando in Italia sono state organizzate centinai di strutture simili per arginare e gestire i contagi.

Com’è nata questa avventura?

"Mi ha chiamato l’assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza".

Ha avuto tentennamenti, dubbi?

"Ho accettato subito, consapevole di rivoluzionare la mia vita, avevo ricerche in corso come direttore di Medicina nucleare al Policlinico di Palermo ed ero segretario regionale della Cgil-medici, incarico dal quale mi sono subito dimesso".

Perché ha detto subito di sì?

"Perché era un’offerta che mi onorava e perché era un momento che richiedeva un impegno personale di tutti noi. Non ci si poteva sottrarre, come medico e come uomo".

Davanti a cosa si è trovato davanti?

"Non sapevamo davanti a cosa ci trovavamo, non lo sapeva nessuno. La Regione aveva opportunamente comprato tre milioni di tamponi. La corsa al test è ciò che ha stigmatizzato la pandemia, venivamo dal lockdown e tutti volevano sapere il proprio stato di salute, se erano stati contagiati".

Poi avete individuato la Fiera del Mediterraneo e siete partiti.

"Si è rivelata una scelta vincente: serviva un posto grande. Abbiamo cominciato quasi artigianalmente, montavo anche io i gazebo e siamo partiti con 3500 tamponi al giorno. Serviva anche scrivere e quindi serviva carta, tantissima carta. Almeno 5000 fogli al giorno. Chi se lo aspettava…".

Difficoltà da affrontare?

"Avere a che fare con numeri enormi. È stato un successo avere con noi anche ingegneri, amministrativi, informatici, matematici, psicologi, assistenti sociali. Non solo medici e infermieri. All’inizio isolavamo 400 positivi al giorno, più i contatti diretti: erano circa 1.200 persone al giorno".

Come ha gestito tutto questo con la famiglia?

"Anche mia moglie è un medico, un'anestesista. Ha fatto turni in fiera con me, questo ci ha permesso di condividere questo momento della nostra vita. Certo non è stato facile iniziare a lavorare la mattina alle 6 al porto per i tamponi e completare la giornata alle 23 a Termini Imerese per i vaccini".

C'è una storia che si ricorda in modo particolare?

"Mi ricordo tutto e niente. Ricordo di quando avevamo i problemi con le bombole d'ossigeno, ci siamo trovati impreparati: era impossibile avere posti fissi per somministrare l’ossigeno ai pazienti, usavamo anche le ambulanze. Qualche volta molti colleghi ed io abbiamo dovuto decidere le priorità di ingresso in ospedale. La scelta più difficile per un medico. E poi la paura che tutti avevano, anche fra i medici. Eravamo esposti, in qualche modo esclusi dagli altri perché potenzialmente continuamente a rischio".

E cosa le lascia di bello tutto questo?

"La possibilità di verificare ciò in cui avevo sempre creduto nella mia formazione. La sanità è un diritto fondamentale dell’uomo. Questa esperienza mi ha fatto capire il valore della medicina e della sanità che deve avere dei principi fondamentali: gratuità, alla portata di tutti e senza nessuna differenziazione. Comprendere questo è già un passo avanti. Ci siamo dati una regola: non curare ma prendersi cura. La pandemia ci lascia questo: il Covid non è finito ma la lezione resta e questo modello di civiltà è il patrimonio più bello che ci possiamo portare dietro".

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