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Zarcone: nella mafia i requisiti morali non contano più

La rivelazione del bagherese al processo contro il clan di Porta Nuova. «Ora anche truffatori e adulteri possono essere boss»

PALERMO. La domanda è maliziosa, ma ha un suo perché: può un mafioso doc essere ai vertici di Cosa nostra e al tempo stesso avere più donne? E soprattutto, può essere un truffatore, uno che — come il neopentito di Bagheria Antonino Zarcone — aveva condanne per assegni a vuoto? Il diretto interessato risponde però tranquillo, agli avvocati che lo «controinterrogano» nel processo contro la mafia di Porta Nuova, denominato Alexander: «Ormai è consentito, non ci sono più divieti e preclusioni di questo genere. C’è stata un’evoluzione». Cosa nostra passa avanti, dunque, anche nella valutazione di quei «requisiti morali» che un tempo precludevano perlomeno di occupare i vertici dell’associazione mafiosa: colpa anche della crisi delle vocazioni, spiega Zarcone, perché tra arresti, sequestri e indagini a tappeto, «farsi mafioso» è sempre più difficile. Figuriamoci allora costituire o ricostituire le gerarchie.

Zarcone parla tra l’altro di propri precedenti trascurabili, per assegni a vuoto. Ma in ogni caso gli spazi sono sempre più aperti e ci sono meno pregiudizi. La questione si era posta trent’anni fa — ovviamente fatte le debite proporzioni — per Tommaso Buscetta, la cui fedeltà coniugale non era proprio incrollabile e già allora don Masino aveva dimostrato, deponendo da «protopentito», che la mafia, pur mantenendo le proprie convinzioni, si stava aprendo al nuovo.

Zarcone depone davanti al Gup Roberto Riggio, che, col rito abbreviato, sta valutando le posizioni degli uomini di Palermo centro, primo fra tutti Alessandro D’Ambrogio, considerato il capo di Porta Nuova (e da qui la denominazione Alexander per l’inchiesta dei carabinieri).

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