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Palermo, ora serve un patto contro l'implosione

Cosa rimane dell’ultima Palermo dell’era orlandiana? A un anno dalla fine del mandato del più iconico dei suoi sindaci - idolatrato o inviso, niente vie di mezzo - la città si sta frantumando in un  frullatore di scontri e ripicche, disfide e agguati, in cui non si fanno sconti a niente e nessuno. Neanche alla decenza. Neanche alla humanitas. Né ai vivi. Né ai morti.

L’implosione babilonese, senza neanche i fasti di una Babilonia violata, scortica il senso di pietà che sanguina sull’ignominia di quelle centinaia di bare impilate in un cimitero torbido e opaco; deturpa alla vista una sedicente capitale che vorrebbe bearsi dei suoi orpelli di antiche civiltà e invece sguazza nella melma perenne dei suoi rifiuti; boccheggia sui drammi - e purtroppo qualche volta piange sulle tragedie - di una sgarrupata politica della mobilità in cui le piste ciclabili slalomeggiano fra le buche e i monopattini fra i pedoni, le strade si sfasciano, i ponti cedono, gli spartitraffico non esistono, nessuno se ne occupa e magari ci scappa anche il morto, mentre ci si annaca con la storiella della rambla che farebbe scompisciare dal ridere l’ultimo e più disilluso dei barcellonesi.

Citiamo non a caso queste tre emergenze fra tante, perché da queste simbolicamente vorremmo partire. Per transitare con almeno un minimo di costrutto dall’analisi alla proposta.

L’analisi. Un sindaco che è ormai uomo più solo che al comando dovrebbe probabilmente prendere atto che le briglie mollate del carro stanno portando lo stesso velocemente verso il dirupo da cavalli imbizzarriti e senza padrone. E la metafora del carro non appaia casuale, vista la triste sorte toccata a quello della Santuzza, termometro della rabbia scomposta di una città fiaccata.

Orlando aveva lanciato l’appello a un patto di concordia finale per il bene della città, senza però concedere più di tanto (figurarsi cedere), sapendo probabilmente bene - lui politico di lunghissimo corso - quale sarebbe stata la risposta, da utilizzare magari poi come chiave autoassolutoria. La sua squadra di governo - che storicamente e tranne poche lodevoli eccezioni ha sempre rappresentato il maschio della mantide religiosa dopo l'accoppiamento - si è smembrata fra dimissionari e dimissionati, indagati e sfiduciati. E i reduci claudicanti hanno pensato bene ieri di riunirsi a un tavolo coi giornalisti. Senza il loro alfiere (autogol mediatico clamoroso), per difendersi dagli attacchi politici (irrituale, una giunta risponde coi fatti, ma i fatti latitano) e financo per attaccare la stampa avversa (banale, banalissimo alibi di cartapesta buono per ogni stagione).

Appuntamento senza costrutto. Inutile. Dunque controproducente. C’è un assessore sulla graticola per le sue improvvide superfetazioni di ruoli e competenze. Ce n'è un altro che la butta sulla risata e non farebbe neanche ridere il Groucho Marx cui si è incautamente affidato sui social, semplicemente perché davvero, anzi nulla, c’è da ridere.  E c’è infine un Consiglio comunale in cui lo sbarco dal grande carro trionfale di chi «il sindaco lo sa fare» è cominciato da tempo, la speculazione elettorale ha ripreso a macinare coerenze e dignità e l’interesse mirato al consenso con vista sulla primavera 2022 (ma come ci arriveremo?) ha travolto ogni residuo di buon intendimento. Risultato: Palermo è immobile. Più immobile dei suoi mille morti senza una sepoltura. Più immobile delle sue cataste di immondizia. Più immobile dei suoi ingorghi che straripano ormai da sotto il tappeto del grande centro pedonale, su strade sfasciate e abbandonate al loro mesto destino.

La proposta, dunque. Manca un anno alla fine di questa agonia politica che non risparmia nessuno. Né chi addita, né chi si imbroda. Cimiteri, rifiuti, politiche del traffico. È davvero così utopico pensare a una trasposizione su base municipale della formula che oggi ha portato al salvifico modello draghiano su scala nazionale? Coscienza e consapevolezza.

Tre punti su cui lavorare insieme, miccia corta e poche chiacchiere. Ammainare le bandiere e rimboccarsi le maniche insieme, per il bene supremo della collettività. Senza ideologismi e senza integralismi. E poi magari ognuno ne chiederà merito ai propri e altrui elettori, fra un anno. Intanto ripuliamo i marciapiedi. Ripariamo le strade. E seppelliamo i morti. Magari non di risate, caro incauto  assessore Catania...

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