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L'ultima volata fra le rogne dell'highlander del consenso

L'Orlando che parte impettito con la bandiera no logo del civismo apartitico e arriva accomodante, attorniato e scortato dal mezzo arco costituzionale che pende a sinistra, non è una novità. Era già successo prima di uscire di scena a ridosso del decennio ultraforzista di Cammarata, quando a buona parte della sua cerchia ristretta di fedelissimi chiese (impose?) un passo indietro per fare spazio a segretari e big di coalizione.

Non servì allora per gettare le basi di un'era post orlandiana mai in realtà sbocciata, non sappiamo se produrrà frutti nel 2022. Quando il sempiterno Leoluca darà definitivamente addio alla sua lunga carriera da sindaco, iniziata sotto le insegne della Dc a metà degli anni Ottanta e passata attraverso strappi, secessioni, primavere, reti, albori democratici, parentesi dipietriste e movimentismi autodafè. A fine mandato ci arriverà senza la possibilità di ricandidarsi e dall'alto delle sue 75 primavere, vissute intensamente. Va bene che siamo al cospetto di un highlander del consenso elettorale, ma anche per lui esiterà pur un limite.

Dunque quello imboccato ieri, con il ribaltamento materiale e concettuale della sua squadra di governo, appare il rettilineo finale della sua lunga corsa. Ma allo stesso tempo anche il tentativo abbozzato di lanciare la lunga volata a chi potrà tentare di ereditarne la scomodissima poltrona, calandosi nell'arena di una partita che fra tre anni - fuori gioco Lui e sempre che non decida di anticipare i tempi - non potrà che essere assolutamente e totalmente politica.

Non si spiegano in altro modo almeno quattro delle new entry in giunta. A cominciare da quel Roberto D'Agostino che cala un robusto ponte sul fossato che da tempo si era scavato fra Orlando e il nuovo leader siciliano dell'acciaccato Pd, Davide Faraone: D'Agostino - che giusto ieri su Facebook sostituiva la sua foto profilo, bardandola con i drappi di sostegno al Martina candidato delle primarie - è un ingegnere con un robusto curriculum da manager. E pazienza se va al Bilancio. C'è poi l'annunciatissimo ritorno di Giusto Catania a tacitare i continui mugugni dell'ala sinistra più estrema, mentre Piampiano (lunga militanza in An prima del carpiato che lo ha visto candidato del centrosinistra alle ultime politiche) serve a raccogliere anche le frange sparse della coalizione.

Quindi Fabio Giambrone, praticamente già da adesso candidato in pectore del suo mentore Orlando alle prossime comunali e lanciato in prima linea dopo gli anni trascorsi a tessere le fila dietro le quinte, laddove conta far la voce grossa e gestire il gioco sporco, lasciando poi agli altri l'ultimo tocco in posa per i fotografi di rito. Compito che Giambrone ha svolto con dedizione quasi ascetica. Non che Orlando non sia capace di lasciare per strada senza troppi scrupoli pezzi importanti del suo cammino. L'ultimo è il vice storico Arcuri, mentre Marino potrebbe anche rientrare dalle finestre delle municipalizzate. Ma l'impressione è che su Giambrone si lavorerà parecchio. Routine la nomina della Prestigiacomo (magari anche per non far sentire troppo sola in quote rosa la confermata Giovanna Marano), scontatissima invece la filosofia che ha portato alla scelta di Adham Darawsha, che può sorprendere solo chi non conosce bene Orlando, oggi più che mai impegnato a muoversi nel suo fervore antisalviniano di un integralismo… integralista, gradito a molti, indigesto ad altrettanti.

Fatta la squadra «finale», resta - dettaglio tutt'altro che marginale - l'azione di governo per il prossimo triennio. Lo abbiamo detto recentemente: il pathos della rielezione nel 2012 si è ormai da tempo spento. E siccome si sono spenti anche i fari di capitale della cultura 2018, adesso restano solo le rogne. A cominciare da un bilancio esangue, tenuto in piedi con artifizi e aperture di credito che certo non garantiscono azioni d'ampio respiro. Il tutto mentre la Rap continua a somigliare sempre più drammaticamente all'Amia (fra cassonetti pieni e casse vuote), l'Amg arranca nel riaccendere una città che si è progressivamente spenta, l'Amat si è ingobbita sotto il fardello del tram, il welfare zoppica fra emergenze reali e furbastri d'accatto, i grandi cantieri promettono mirabilie e intanto seminano sconforto e disastri, l'economia boccheggia, le aziende faticano, il lavoro sparisce, le infrastrutture sportive cadono a pezzi, di nuovo piano regolatore e rilancio urbanistico manco a parlarne.

Certo, ha ragione Orlando quando dice che Palermo è profondamente cambiata rispetto agli anni roventi del piombo e del sangue. Verissimo, per fortuna. È una città meno rassegnata e più consapevole, capace di manifestare grandi reazioni in termini di coscienze, anche se il cammino del pieno riscatto antimafioso resta lungo. Ma da un'amministrazione municipale ci si aspetta molto più pragmatismo quotidiano, piuttosto che più o meno condivisibili tratteggi etici, sociali e morali. Fianco scoperto, quello delle ordinarie emergenze, facile alle stoccate di rito degli avversari politici. Perfino - pensate un po' - quelle di ineffabili esponenti del M5S che additano i nuovi assessori al grido di «arroganti e incompetenti». Com'era quella storia del pulpito e della predica?

 

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