I carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo hanno arrestato sette persone con le accuse di associazione mafiosa ed estorsione aggravata. Il blitz, coordinato dalla Dda guidata dal procuratore Maurizio De Lucia, ha colpito la famiglia mafiosa di Rocca Mezzomonreale e i suoi vertici, già condannati in via definitiva e tornati liberi dopo avere scontato la pena. In cella sono finiti anche uomini d'onore riservati, sfuggiti finora alle indagini, che sarebbero stati chiamati in azione solo in momenti di criticità per la cosca.
Gli arrestati finiti in carcere sono Pietro, Gioacchino e Angelo Badagliacca rispettivamente di 79, 46 e 51 anni, Marco Zappulla, 35 anni, e Pasquale Saitta, 68 anni. Ai domiciliari sono andati Michele Saitta, 71 anni, e Antonino Anello, 83 anni. L'operazione, condotta tra Riesi, nel Nisseno, e Rimini, ha consentito di smantellare la famiglia mafiosa di Rocca Mezzomonreale, costola del mandamento palermitano di Pagliarelli, e ha confermato, ancora una volta, le storiche figure di vertice, già in passato protagoniste di episodi rilevanti per la vita dell'associazione mafiosa, come la gestione del viaggio a Marsiglia del boss Bernardo Provenzano per sottoporsi a cure mediche o la tenuta dei contatti con l'allora latitante castellvetranese Matteo Messina Denaro.
Le indagini hanno sventato un omicidio. La sentenza di morte, decisa durante un summit di mafia e segno della ritrovata armonia tra i membri della famiglia mafiosa, venne emessa nei confronti di un architetto, che nella sua attività, secondo i boss, aveva commesso alcune mancanze verso il clan. I carabinieri, inoltre, hanno ricostruito diverse estorsioni a imprenditori e
commercianti: gli incassi alimentavano le casse della famiglia. A volte i boss imponevano le ditte a loro vicine. Per convincere la vittima a pagare, in un caso venne fatta trovare vicino al cancello di un'abitazione una bambola con un proiettile conficcato nella fronte.
«C'è lo statuto scritto… che hanno scritto i padri costituenti», afferma uno dei boss, non sapendo di essere intercettato. Una rivelazione che i magistrati ritengono importantissima e che conferma l'osservanza da parte dei capimafia di ferree regole, una sorta di Costituzione della mafia. I boss continuano a rispettare le vecchie regole mafiose e a imporne l'osservanza agli affiliati, dunque. Le cimici piazzate dagli investigatori hanno permesso di ascoltare le conversazioni degli indagati che spesso si richiamavano al rispetto di principi mafiosi arcaici, un vero e proprio Statuto scritto dai padrini. Princìpì che i capimafia continuano a considerare il baluardo dell'esistenza stessa di Cosa nostra. Nell'ambito della conversazione registrata, definita dal gip «di estrema rarità nell'esperienza giudiziaria», si è più volte fatto richiamo all'esistenza di un codice mafioso scritto, custodito gelosamente da decenni e che regola, ancora oggi, la vita di Cosa nostra palermitana.
Criticano la strategia stragista del boss Totò Riina i capimafia intercettati. «Niente cose infami, ma perché pure tutte queste bombe, tutti questi giudici, tutti questi... ma che cosa sono?», dice uno degli indagati non sapendo di essere intercettato, dopo avere stigmatizzato anche la scelta di assassinare i familiari del pentito Tommaso Buscetta ancor prima che questi cominciasse a collaborare con la giustizia. Dure parole vengono riservate anche all’ex boss Giovanni Brusca. «Una "scopettata" (un colpo di fucile, ndr) nelle corna gli dovrebbero dare!»: secondo i due padrini intercettati, Riina e i suoi «pensavano solo a riempire il portafoglio». «Sì, e non si interessava a niente. Non è che loro amavano la cosa (dove per cosa verosimilmente si intende l’organizzazione mafiosa, annota il giudice). Perché uno che la ama, fa le cose per non distruggerla, per tenerla», sentenzia il boss. «Tutte cose sono finite», conclude, ricordando che in passato «c’erano buoni rapporti con gli organi dello Stato. Non si toccavano, non si toccavano». «Anzi li allisciavano», dice l’interlocutore.
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