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Il Ferrari scrittore, le Rosse protagoniste al festival del libro di Monreale

PALERMO. «Io mi ritengo peggiore degli altri, ma non so quanti ce ne siano stati, o ne crescano, migliori di me»: è una delle frasi che Enzo Ferrari mise nero su bianco parlando di se stesso. La mise proprio nero su bianco perché, forse in pochi lo sanno, l’uomo che ha rivoluzionato il Novecento dando un senso diverso all’invenzione dell’automobile è stato anche uno scrittore.

E nella scrittura Ferrari si toglieva gli abiti con cui appariva in pubblico, nei circuiti o in fabbrica. E scrivendo amava parlare di sé, quasi confessando le sue debolezze. Ammise, lui che era un campione dell’io, di non essere stato un buon pilota. Lo fece scrivendo «Piloti, che gente», che resta a distanza di decenni una delle più romantiche enciclopedie dell'automobilismo del dopoguerra.

Lì, fra quelle pagine che raccontano l’epopea da Nuvolari ad Alboreto, Ferrari rivelò perché decise di smettere di correre: «Presi la decisione nel gennaio del 1932. Quel giorno promisi a me stesso che, se mi fosse nato un figlio, avrei smesso di pilotare bolidi e mi sarei dedicato all’attività organizzativa. Io non avrei mai pensato di poter diventare padre. Forse scacciavo inconsciamente questa idea perché avevo valutato, nella esperienza altrui, l’enorme responsabilità di mettere al mondo una creatura e allevarla: una responsabilità che mi spaventava. Ma quando la vita mi mise davanti al fatto compiuto, a mio figlio, fui indotto alla meditazione».

Rispettava l’arte della scrittura, Ferrari. Era tagliente nei giudizi e sceglieva accuratamente le parole. Il Drake scrittore non perdonava nulla, neppure a se stesso. E, sempre in «Piloti, che gente» finisce per ammettere di non poter affermare «che sarei diventato un gran corridore. Sapevo di portare in me un grosso ostacolo: guidavo la macchina rispettandola. Quando si vogliono ottenere dei risultati clamorosi bisogna saperla maltrattare. Usare il cambio senza obiettiva necessità, superare il regime massimo del motore, frenare imprudentemente. Tutte cose che disturbano il mio modo di sentire la macchina.

Insomma, non ero capace di far soffrire la macchina e questa specie di amore, che posso intendere quasi in modo sensuale o sessuale del mio inconscio, è probabilmente la sostanziale ragione per la quale non sono più andato a vedere le mie macchine correre. Pensarle, vederle nascere e vederle morire – perché in una corsa muoiono sempre, anche se vincono – è un’escursione termica, per i miei sensi, insopportabile».

Eccolo, il Ferrari scrittore. Uno che, forte di appena le scuole elementari, imparò da solo l’arte della scrittura. E la coltivò fin da giovane. Sognava di fare il giornalista (un suo articolo in cui raccontava un Modena-Inter degli anni Venti è una delle chicche nell’archivio della Gazzetta dello Sport), finì a scrivere libri rimasti nella memoria non solo dei fans dell’automobilismo. Ne «Le miei gioie terribili» racconterà momenti felici e drammi della sua vita fuori e dentro il mondo delle corse. Un volume oggi quasi introvabile e dal valore enorme per i collezionisti.

Lì ci sono pagine, come quella sulla morte del figlio, che assumeranno anche un valore filosofico: «La sfortuna non esiste, esiste solo l’incapacità di fare o prevedere» scrisse per spiegare che il suo Dino non aveva vinto la distrofia muscolare solo perché la scienza non aveva ancora fatto i passi necessari.
Ferrari curerà in modo maniacale la sua agenda, al punto che poco dopo la sua morte questa diventerà un libro di memorie, «Una vita per l’automobile», che inizia con una foto di lui in fasce e termina con l’immagine del suo nipotino omonimo appena nato.

Ecco perché non è strano che la Ferrari sia protagonista, sabato a Monreale, della seconda edizione di «Storie di libri tra Palermo e Monreale». Una manifestazione che avrà tra i suoi momenti più alti l’intervento dell’ex ministro Giovanni Maria Flick. Lo Scuderia Ferrari club San Vito Lo Capo porterà in piazza la proprie vetture col simbolo del Cavallino. E poi il direttivo composto tra gli altri da Roberto Leone, Roberto Siragusa, Stefano Guccione, Alessandro Magnasco e Salvo Paxia illustrerà ai giovani i segreti della Ferrari e di Ferrari. Molti tratti proprio dai suoi libri.

Che si concludevano sempre in modo lirico. Ferrari, passato alla storia per il suo cinismo, era in realtà un romantico. Così rileggendolo può capitare di sentirsi sulle montagne russe delle emozioni. Sì, poteva capitare che in una stessa pagina mostrasse la propria corazza («non credo nelle sincere e profonde amicizie tra uomini costretti dalla passione ad affrontarsi ogni domenica rischiando») per abbandonarsi poi al romanticismo nel descrivere il coraggio di chi guida mettendo in gioco la vita, inseguendo un sogno. Una visione del mondo che riuscì a sintetizzare in tre righe appena che chiudono il suo libro più famoso: «Piloti, che gente... Maestri del calcolo, campioni di cinismo, primatisti della sconsideratezza o soltanto uomini che cercano nell’esaltante fremito della vittoria il senso della loro vita?».

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