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Tra i casermoni dello Zen, ferito dall'inchiesta sulla preside: «La scuola non era aperta al territorio»

Che fatica essere dello Zen. Il quartiere di Palermo è pieno di nomi che la evocano, la fatica. Fausto Coppi e Learco Guerra erano ciclisti nei cui sandali (ricordate Paolo Conte?) sono passate montagne di chilometri; Primo Carnera era uno che ha dato e ricevuto molti pugni; Tazio Nuvolari, al volante, era abituato a ingoiare polvere e successi. Niente senza sforzo, niente senza determinazione. Per cui, anche l’attaccamento alla scuola di Daniela Lo Verde è sempre sembrato in linea con l’impegno che ci vuole per fare andare avanti le cose in certi quartieri difficili.

Zen 2, benvenuti. È l’ora di pranzo. Il caldo già si fa sentire. C’è sporcizia, sui marciapiedi, nelle aiuole, per strada. Dappertutto. Due persone accanto alla parrocchia portano a spasso due rottweiler che s’annusano tra di loro, i segni del rogo di una piccola discarica sono l’istantanea di un luogo non lontano da certe cartoline di Maresco. Uno sbuffo di vento alza al cielo cartacce, i ragazzini sfrecciano con moto il cui motore geme di disperazione. Il degrado c’è e si vede. Certo, non bisogna fare l’errore di incartare tutto lo Zen sotto il pregiudizio. Anche se qui quello che è accaduto qualche giorno fa - e che altrove poteva essere rubricato sotto una delle tante notizie di malversazione o truffette miserabili - provoca risa di scherno e una facile equazione: questa volta il quartiere non c’entra nulla con furti e ruberie, chi oggi viene indicato come colpevole appartiene a quella società civile arrivata fin qui a portare il soffio di una vita nuova. E invece…

In realtà, ciò di cui viene incolpata la preside con alcuni suoi assistenti non riguarda la sua attività per così dire di impegno sociale, di volontaria di qualche onlus. No, lei era lì ad amministrare un presidio dello Stato, l’unico peraltro insieme alla caserma dei carabinieri e alla postazione della polizia municipale. Per questo il tradimento, se così possiamo chiamare questo modo di gestire una scuola, brucia ancora di più.

Sì, c’è sgomento nei volti dei residenti. Ma non troppo. Quando si sciolgono un po’, perché ancora non è facile prendere bene la misura a questa storia in cui è la città bianca a essere una volta tanto sotto processo, ti fanno capire che in fondo in giro non c’è meraviglia per ciò che è accaduto. Nessuno immaginava l’abisso di miseria che induce una celebrata preside a portare via perfino una boccetta d’origano, questo no. Ma che non tutto là dentro filasse liscio era una percezione diffusa.

Lo spiegano con la sapienza istintiva di chi vive in un contesto in cui diffidare diventa la prima regola per sopravvivere. «Quella preside lì - spiega Giovanna, una madre che ha proprio un figlio alla scuola Falcone - in realtà era una scostante, che tendeva a trattare tutti con distacco. L’istituto era una specie di riserva per pochi. I campi sportivi quasi sempre chiusi. Quasi a non volere attorno a sé fastidi o occhi indiscreti. Ma quale scuola aperta al territorio?».

Provi a fare un giro fra insulae e casermoni in questo lembo di città e purtroppo lo stereotipo della Zona espansione nord coincide in qualche caso con la realtà. Anche se c’è sempre il germoglio della meraviglia quando, ad esempio, il corridoio di case indicato col numero 18 è pulito come nessuna strada di Palermo che con la munnizza ha sempre un rapporto complicato. Le mamme, i giovani, si danno da fare e mantengono tutto lindo: una tranquilla strada di periferia, si direbbe, un po’ scalcinata ma molto dignitosa. Come le signore che accettano di parlare, di offrire un punto di vista, di rassegnare un dubbio. E Caterina, una che si alza alle 5 ogni giorno per raggiungere lo studio dove lavora in città, ad esempio, con l’arguzia tipica di chi la sa lunga, fa questa riflessione: «Dico la verità, ma quando la preside è arrivata, mi pare intorno al 2013, non mi è piaciuto il suo primo atto: si è fatta installare una porta blindata nel suo ufficio e un impianto di videocitofono. Perché? Col dirigente di prima (Di Fatta, che ora è tornato in maniera provvisoria, ndr) le porte erano sempre aperte, perché con lei è cominciato un progressivo distacco dal territorio?».

Insomma, scava scava si scopre che la signora Lo Verde per lo più era un’estranea per il quartiere, asserragliata nella sua oasi intestata al magistrato la cui memoria però sembra davvero essere stata calpestata, come si è giustamente lamentata la sorella Maria Falcone, sull’onda delle prime notizie e di quei video che d’ora in poi saranno una specie di colonna infame dell’arraffamento.
C’è una botteguccia dove tre uomini bevono gazosa e birra. Non amano moltissimo parlare. Ma alla fine uno di loro un ragionamento lo fa: «Allora, nel quartiere spesso arrivano quando ci sono cose tinte, cose cattive, le forze dell’ordine. Anche quando sono stati rubati computer e altri oggetti della scuola. Ma possibile che non si riesce mai a trovare i responsabili? Possibile che le telecamere o non ci sono o sono sempre rotte? Ecco, forse sbaglio, ma secondo me su queste storie c’è stata sempre una mano interna. Tanto poi è facile buttare fango sul quartiere».

La scuola ieri era chiusa. Ma forse sarebbe stato il caso di tenerla aperta, aperta persino di notte. Un modo per dare un segnale che dicesse «qua si continua, non è vero che tutti siamo uguali».
Nessuno può sapere che cosa uscirà ancora dalle carte di questa inchiesta dei pm europei Gery Ferrara e Amelia Luise e quanto maleodoranti saranno i dettagli. Ma c’è - fortissimo - il rischio che da questa storia nel quartiere possa sedimentare l’idea che il mondo è quel che è, tutto marcio, e nessuno può farci nulla. Ed è, in fondo, quello che teme Mariangela Di Gangi, una vita trascorsa allo Zen come operatrice e oggi consigliere comunale di opposizione.

«C’è una preside agli arresti - spiega - ma c’è anche un’insegnante che non è rimasta in silenzio e ha consentito di scoperchiare questa situazione. Ricordiamo che il vero impegno per il riscatto ha sempre un volto collettivo, fatto di processi che resistono anche agli sbagli dei singoli - ragiona la Di Gangi -. È arrivato quindi il momento di dire basta ai simboli e agli eroi. Come per lo Zen abbiamo sempre chiesto una “straordinaria ordinarietà”, credo sia arrivato il tempo di decantare le lodi della rivoluzionaria potenza dell’impegno serio, collettivo e quotidiano».
Forse è così. Per il successo di un progetto ci vuole fatica, passione, impegno, perseveranza. Come hanno fatto Bartali, Nuvolari, Coppi, Girardengo, Carnera. Nomi familiari da queste parti.

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