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Dieci anni senza Giulio Andreotti, icona della politica italiana

Dieci anni senza il «divo»: il 6 maggio del 2013 moriva a 94 anni, una icona della politica italiana, Giulio Andreotti, classe 1919, forse uno degli uomini più potenti e rappresentativi del Paese dal dopoguerra, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi De Gasperi a soli 27 anni, fino alla fine della prima Repubblica.
Dopo la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro e con l’inizio della drammatica serie di attentati di mafia e i colpi del pool di magistrati di «mani pulite» cominciò una rivoluzione che portò al cambiamento dei consolidati schemi di gestione della politica: regnava la Democrazia Cristiana, il partito-Stato che guidava con i suoi leader dagli anni 60 in poi una coalizione di pentapartito insieme a socialisti, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Andreotti, fino all’epilogo del Caf, quello che negli anni 80 era l’acronimo del ristrettissimo gruppo di comando formato dall’esponente democristiano discepolo di De Gasperi, il segretario del Psi Bettino Craxi e l’allora segretario della Balena Bianca Arnaldo Forlani, ne era il personaggio più rappresentativo. Ha partecipato a dieci elezioni politiche nazionali: è stato il candidato con il maggior numero di preferenze in Italia in quattro occasioni. Nel 1991 è stato nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Sette volte presidente del Consiglio e per trentaquattro volte Ministro, considerando anche gli incarichi ad interim. In un quadro internazionale caratterizzato dalla divisione del Mondo tra l’ovest a guida Usa e l’est sotto l’egida dell’Unione Sovietica, il leader democristiano, convinto europeista, ha sempre auspicato un equilibrio nei rapporti tra questi due mondi: ottimi i rapporti con gli Stati Uniti ma anche con la nomenklatura di Mosca, una costante attenzione per le problematiche mediorientali, una forte e discreta presenza nella Libia di Gheddafi, un proficuo dialogo con il Vaticano. Andreotti è sempre stato un fautore della tenuta dello status quo tra Ovest ed Est tanto da fargli dire una volta che la Germania la considerava talmente importante da fargliela vedere sempre doppia: una a occidente e una a oriente, la Ddr comunista, come un tassello importante di equilibrio nei rapporti tra i due blocchi. Nella convinzione che solo con questo assetto, e forse la storia gli ha dato in parte ragione, si poteva garantire, tra l’altro, lunga vita al sistema politico che vigeva in Italia dal dopoguerra. Una filosofia politica che il sette volte presidente del Consiglio adottò, con luci e ombre, anche nella politica interna.

Sempre attento ai rapporti con il Pci. Qualsiasi decisione importante per l’Italia era in qualche modo elaborata tenendo conto delle aspettative di una fetta importante del paese che non si riconosceva nella Dc e nel suo sistema. Una politica che lui stesso negli anni 60 definì dei due forni. Corroborata da una forte presenza sul territorio: in Ciociaria, nel suo collegio del sud del Lazio, fu campione incontrastato di preferenze. Un risultato raggiunto non solo grazie al suo prestigio personale ma anche con la presenza fisica: quasi ogni fine settimana, libero dagli impegni di governo ed istituzionali, si presentava nel suo collegio partecipando a cerimonie di qualsiasi tipo, anche all’inaugurazione di ristoranti e negozi, raccogliendo alle elezioni una media di 300 mila preferenze. Da premier accusò il colpo del rapimento Moro da parte delle Br, con le successive accuse di aver poi voluto, insieme a Francesco Cossiga, la morte dello statista democristiano. Ma la gestione dei rapporti con il sistema di potere siciliano, dove la corrente andreottiana aveva un peso non indifferente all’interno della Dc, sembra essere stato uno degli elementi che alla fine hanno contribuito ad appannare il personaggio.

Nel film di Paolo Sorrentino, intitolato proprio il Divo (da qui l’appellativo) si dipinge un quadro in chiaro-scuro che il vecchio leader Dc ha sempre respinto, anche con rabbia, definendolo una «mascalzonata». Ma in un quadro di dissolvimento generale del vecchio sistema politico, l’assassinio di stampo mafioso di Salvo Lima, considerato il suo luogotenente per tanti anni in Sicilia, gli attentati a Falcone e Borsellino, sono stati letti nel mondo politico e giornalistico di allora come un segnale che l’aria stava cambiando e che lo schema del «Divo» era arrivato al capolinea. Tant’è che nel 1993, quando la Procura di Palermo chiese al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio Andreotti un giornale titolò: «Ora tocca a Belzebù» (questa definizione fu coniata da Bettino Craxi). Erano in effetti accuse pesantissime e appunto «diaboliche», come commentò qualcuno, quelle elencate nel dossier dei magistrati siciliani: al senatore veniva in sostanza contestato di avere stretto un «patto scellerato» con la mafia.

Nel sistema di relazioni «pericolose» ricostruito dal processo di Palermo un ruolo centrale è assegnato a Salvo Lima, capo di quella che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa definiva nel suo diario la «famiglia politica più inquinata dell’isola». Lima aveva aderito alla corrente andreottiana nel 1968. Secondo i pm palermitani, avrebbe portato in dote un cospicuo pacchetto di tessere facendola diventare da piccola componente laziale a corrente nazionale della Dc. Un dato, quello delle relazioni pericolose, che il leader democristiano ha respinto fino alla fine chiedendo e chiedendosi sempre quali fossero gli elementi oggettivi che confermassero questi suoi rapporti con quel sistema. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo con sentenza del 23 ottobre 1999. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 2 maggio 2003, dichiarò commessi ma prescritti i reati anteriori alla primavera del 1980, mentre fu confermata l’assoluzione per tutti gli avvenimenti successivi. La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello. Resta il ricordo di uno dei protagonisti assoluti della politica italiana del ventesimo secolo.

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