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Requiem per le vittime di mafia, al Teatro Massimo l'arte è strumento di legalità

L’arte è strumento di legalità, è una delle strade più luminose per la libertà, come spesso ripete Marco Betta, il sovrintendente compositore. Ma mai come ieri sera, al Teatro Massimo di Palermo, questo è stato concreto, visibile. La memoria del trentennale delle stragi del 1992 è stata celebrata con quel «Requiem per le vittime della mafia», nato alla fine del '92, sull'onda dello smarrimento che attraversò tutta l’Italia. Su idea di Marco Tutino, che raccolse sette giovani compositori, tra i quali proprio Marco Betta.

Il Requiem è stato fortemente voluto dall’Anm, dal presidente Giuseppe Santalucia, ma anche Clelia Maltese, in sala anche il ministro Carlo Nordio che nel pomeriggio aveva presenziato all’intitolazione dell’Aula Bunker ai giudici Falcone e Borsellino.

Teatro stracolmo di giovani che nel 1992 non erano nemmeno nati. «Guardare alle nuove generazioni- ha detto la presidente dell’Anm di Palermo Clelia Maltese - e da qui passeremo il testimone a Firenze che il prossimo anno commemorerà la strage dei Georgofili». Questo Requiem è il «filo della memoria - ha aggiunto il sindaco Roberto Lagalla- e questo segno resterà per sempre a Palermo, l’aula Falcone e Borsellino ricorderà nei secoli la testimonianza, e il sacrificio dei giudici, che va consegnata ai giovani».

Nell’Introito di Lorenzo Ferrero l’atmosfera è cupa, ritmica, scandita dal canto del coro e dei ottoni, come in un viaggio di dolorosa riflessione di scale discendenti che confluisce nel Dies Irae di Carlo Galante. Sul testo scritto da Vincenzo Consolo che tradusse in italiano le parti della classica liturgia latina, il ritmo prende la rincorsa, si fa concitato e ricorda poi gli orribili suoni di una discesa agli inferi.

Sette giovani compositori, allora veramente molto giovani, neoromantici, si disse, ma insomma finalmente non era più vergogna usare la melodia e la tecnica compositiva erede della classicità. Opera monumentale ma del tutto priva di retorica, con una forza straripante affidata ai violoncelli e ai fiati. Straordinariamente belle le voci, nel «Lux Eterna» di Marco Betta, del soprano Desirée Rancatore e del tenore Giulio Pelligra che creano un’atmosfera densa, in un crescendo drammatico, che chiede pietà e perdono per la città martoriata, e si estende verso un grido al Creatore: giustizia, e ancora giustizia. A quattro voci, il Sanctus di Matteo D’Amico, che non risparmia oscurità, e una lunga preghiera, in una cascata di suoni che inondano il pubblico. L’Agnus Dei di Giovanni Sollima usa una cellula armonica che si ripete mentre il canto del tenore, Giulio Pelligra, si estende verso sonorità di grande respiro.

«Libera me» è il canto finale di Marco Tutino. Solo violini all’inizi, nell’assoluto raccoglimento, che chiamano una a una le altre sezioni dell’orchestra, in un crescendo drammatico verso il canto del soprano e le percussioni, in un’atmosfera rarefatta, fino al pieno ingresso del coro.

Bravi i solisti, tra i quali il mezzosoprano Raffaella Lupinacci, il basso Roberto Scandiuzzi. Coinvolgente la precisione del direttore Alessandro Cadario. Fu un miracolo allora che un Requiem scritto a sette mani avesse una cifra così omogenea. In auto Giovanni Falcone ascoltava sempre il Requiem di Verdi, anche questo gli sarebbe piaciuto. Applausi convinti, sinceri e prolungati.

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