Spesso entravano in convento con le novizie, altre volte venivano donati dalle nobili famiglie della città, altre ancora facevano parte delle ricche collezioni dei monasteri. Fatto sta che i bambinelli di cera erano molto più di un semplice accessorio nelle spoglie celle della clausura: delicatamente immersi in giardini di pietre, in culle preziose, o in scarabattole sontuose (le scatole, quasi delle vetrine, che li ospitavano), i bambinelli accompagnavano la vita del convento. E sbaglia chi li indica come «bambole» dorate delle giovanissime novizie (che non potevano possedere oggetti preziosi) o come un simbolo della maternità negata: sono il punto di passaggio, il simbolo dell’amore prezioso della monaca che contemplava il Divino nella solitudine della sua cella.
Ed eccoli allora i «divini infanti», capolavori straordinari di arte antica, nati nelle botteghe dei «bambineddari» e volati nei conventi: una mostra li racconta in centocinquanta «stazioni», sì perché dinanzi ciascun piccino di cera, ti devi fermare e ammirarlo nei particolari. Il monastero di Santa Caterina, in piazza Bellini a Palermo, è già un luogo da visitare, lo sa bene padre Giuseppe Bucaro che è artefice di questo recupero: ma i bambinelli sono un’aggiunta bellissima e la mostra durerà fino al 10 gennaio: oltre alla collezione dello stesso convento – circa settanta pezzi – altrettanti giungono da raccolte private e musei diocesani. Siamo nel XVIII secolo e la ceroplastica è una consuetudine: nelle botteghe in via dei Bambinai, dietro la chiesa di San Domenico, gli artigiani sono numerosi e bravissimi, la loro maestria è riconosciuta ovunque e fa a gara con quella dei trapanesi.
Ogni monaca professa (di Santa Caterina ma anche degli altri conventi) aveva il suo Bambin Gesù, protetto da una scarabattola, sul cassettone all’interno della cella: la metà dei bambinelli in mostra, è infatti ancora nelle stanzette dove un puntiglioso lavoro di restauro (di Maricetta Di Natale) ha ricostruito gli ambienti. La mostra, curata da Maria e Nicole Oliveri, è un vero viaggio nel passato, alla ricerca dei segni di una devozione che cresceva con il vivere insieme nei chiostri. Gesù in fasce, adagiati su velluti, nelle culle, nelle mangiatoie, in aiuole preziose; un bambinello nero arriva da Caccamo (ma è di Ciminna), un altro ha i capelli di stoppa, un altro ancora non è di cera; quasi tutti hanno un dettaglio in rosso (un cuore trafitto, una collana di coralli, un cuscino di velluto) che indica la Passione di Cristo. C’è il Salvator Mundi (il bambino benedicente con il globo in mano), il Buon Pastore che affianca il suo gregge, l’Ortolano, il bambinello con i cuori, il Bambin Gesù con i simboli che prefigurano la futura passione (chiodi, martelli, scala, corona di spine), il bambinello tra le braccia di San Giuseppe o della Madonna; di produzione ericina, alcamese, salemitana, realizzati con cura e passione da un chimico prestato al restauro come Italo Giannola che ne costruisce ancora, magari racchiudendoli in un guscio di noce. E in tanti avevano persino il corredino ricamato dalle stesse monache.
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