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La Resistenza fatta pure dai palermitani, la storia di «Otello»

La tessera di Placido Armando Follari

Amareggia non poco sapere che ci sono ancora studiosi che si ostinano, malgrado il tempo trascorso, a discettare con un pizzico di ipocrisia sulla diversità di una Resistenza del nord rispetto a quella del sud. Verrà mai il giorno, si chiedono in molti, in cui la storiografia più accreditata si farà carico di una sorta di operazione-verità? Non è accettabile che si continui a minimizzare il fondamentale ruolo svolto dai partigiani meridionali, a cominciare dai siciliani, nella lotta armata che ebbe luogo in tutta la penisola per cacciare dal territorio nazionale gli oppressori nazi-fascisti. La lotta politico-militare in Sicilia non fu «all’acqua di rose», solo perché un mese prima dell’8 settembre 1943 il suo territorio era stato occupato dalle truppe anglo-americane.

La ritirata tedesca ebbe strascichi drammatici, soprattutto nella parte orientale dell’Isola dove la popolazione reagì con veri atti resistenziali e pagando prezzi salatissimi. I siciliani agirono, dunque, prima nella loro regione e poi, per un periodo più lungo, in ogni parte d’Italia. In tutti i luoghi i loro tributo di sangue per la libertà è stato enorme, come testimoniano le centinaia e centinaia di morti, feriti, internati e pluridecorati. Ben 23 (e forse più) sono le «Medaglie d’Oro» assegnati alla memoria di eroi della Resistenza, nati e cresciuti in Sicilia, uccisi barbaramente in diverse località del Paese. A seguire sono state assegnate 84 medaglie d’argento, numerose «croci di guerra» e riconoscimenti vari. Chi scrive ha avuto il privilegio di conoscere, frequentare e apprezzare due eroi siciliani, partigiani e convinti antifascisti, le cui gesta, da sole, sono idonee a smentire la ricorrente versione «riduzionistica» della sicula azione resistenziale.
Il primo è Pompeo Colajanni, nome di battaglia «Nicola Barbato», nato a Caltanissetta il 4 gennaio 1906 e morto a Palermo l’8 dicembre 1987, il cui mito di combattente per la libertà è fin troppo conosciuto e non ha bisogno di ulteriori commenti. È sufficiente sottolineare che da comandante partigiano delle brigate garibaldine del Piemonte, ebbe un ruolo centrale nella liberazione di Torino.

Poi c’è, non meno importante, l’epopea del partigiano Placido Armando Follari, nome di battaglia «Otello», di idee socialiste. Giovanissimo entrò nella Resistenza. Chi scrive lo ha intervistato più volte e, malgrado la differenza d’età, ha intrattenuto con lui una cordiale amicizia.

Era nato a Palermo il 5 febbraio 1924 ed è morto in città il 27 gennaio 2016. Nell’ambito delle celebrazioni del 70° anniversario della Resistenza e in occasione del suo 90° compleanno, nel 2013 ricevette delle mani del sindaco la «Medaglia della città di Palermo». Laureato in matematica, dopo la Liberazione, si diede all’insegnamento fino a diventare amatissimo preside di scuola media. A Placido Follari, nel 1950, il Presidente della Repubblica concesse una «Croce al valor militare» con la seguente motivazione: «Combattente della lotta di liberazione forniva ripetute e belle prove di iniziativa, di capacità e di coraggio, particolarmente distinguendosi nel combattimento di Medelana, ed in quello alla confluenza del Setta Reno. Appennino Emiliano, settembre 1944-aprile 1945».

Follari, non ancora ventenne, era già allievo ufficiale dell’Accademia di Modena. L’8 settembre del ’43 si trovava in licenza a Castel Maggiore (Bologna) e anziché fare ritorno a Palermo decise di prendere parte attiva alla lotta clandestina contro l’invasore tedesco. Abbondò l’Accademia e si diede alla macchia, rischiando la fucilazione. Trovò accoglienza, con altri commilitoni, nelle case dei contadini. Si distinse per delicate azioni di sabotaggio di linee telefoniche e depositi di munizioni. Venne chiamato a far parte, come capo plotone, della IX Brigata partigiana “Santa Justa”. Mentre le autorità militari del luogo emettevano contro di lui ordine di cattura perché renitente di leva, assunse il nome di battaglia «Otello» e si trasferì, per sfuggire all’arresto e per impegnarsi nella lotta, in zone vicine a Bologna.

Mal gli incolse. In seguito a un rastrellamento effettuato dai tedeschi, fu ammanettato e condotto nelle caserme Rosse di Corticella da dove lo avrebbero sicuramente deportato in Germania. Non si perse d’animo. Con i suoi compagni pianificò la fuga. Tutto finì bene, grazie al coraggio e all’impegno profusi. Otello conquistò i galloni di “comandante di compagnia” nella “Santa Justa” e nell’arco di otto mesi, dal ’44 al ’45, prese parte a numerosi combattimenti contro reparti repubblichini appoggiati dalle SS hitleriane. Si distinse per acume quando gli venne affidato il comando della postazione partigiana a difesa dell’Università degli studi di Bologna. Impedì, non senza fatica, che i nazifascisti facessero vittime fra gli studenti e distruggessero opere d’arte e suppellettili dell’Ateneo felsineo. Operò con determinazione, umanità e intelligenza. Caratteristiche che non vacillarono mai nel suo lungo percorso di vita e di docente. Per Follari-Otello, prendendo a prestito le parole del beato e martire Teresio Olivelli trucidato nel lager di Hersbruck, «la Resistenza fu una rivolta dello spirito, fatta di dolore e di fierezza, non contro altri uomini o contro questa o quella concezione politica, ma contro una intera epoca, contro un costume di vita, contro aberranti ed allucinanti visioni del mondo e dell’uomo che sovvertivano i valori supremi dell’esistenza, le basi stesse della civiltà». Una frase che andrebbe scolpita in ogni luogo pubblico, a futura memoria.

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