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Fiandaca: i magistrati non sono i custodi della virtù, non diamogli un ruolo salvifico

Giovanni Fiandaca

Come studioso non più giovanissimo di temi penalistici e dintorni, ancora animato da una certa passione intellettuale a dispetto del decadimento politico-culturale di cui soffre il nostro paese, continuo a seguire con interesse quanto accade nel campo della giustizia penale, o intorno ad essa si pensa e scrive nelle sedi più diverse. Ho perciò letto con attenzione anche le interviste pubblicate su questo giornale nel contesto del viaggio attraverso la giustizia italiana condotto da Costantino Visconti, nella sua doppia veste di studioso ed editorialista: interviste variegate e ad ampio spettro, che ho apprezzato – non ultimo – per la opportuna sollecitazione a rivedere o mettere in discussione presunte verità ormai quasi assurte a dogmi di fede. I teoremismi sono virus pericolosissimi per la giurisdizione penale, tanto più se acriticamente diffusi dai media. Ed è forse superfluo richiamare i moniti di Leonardo Sciascia contro il grave rischio non solo di errori giudiziari, ma anche di fanatico giustizialismo connesso alla tentazione di elevare i tribunali ad altari sacri, con conseguente fiducia fideistica nell’operato dei magistrati inquirenti e giudicanti. Essendo la giurisdizione penale una istituzione di garanzia, ma ancor prima una macchina di potere che – specie se azionata con sovraesposizione combattentistica o spericolata imprudenza – può stritolare i malcapitati che cadono nei suoi ingranaggi, ritengo che abbia senz’altro ragione il mio amico giusfilosofo Luigi Ferrajoli a non stancarsi di additare una fondamentale massima deontologica: la regola cioè del «dubbio metodico» - anche quando le indagini riguardano boss mafiosi o membri di altre forme di criminalità sistemica - quale abito mentale che meglio si addice sia ai giudici, sia ai pm di una democrazia costituzionale degna di questo nome.
Tutto ciò premesso, confesso che mi hanno convinto poco le «precisazioni» (sic!) che Giancarlo Caselli ha pubblicato su questo giornale (Giornale di Sicilia del 9 marzo ) a proposito della precedente intervista rilasciata a Visconti da Giuseppe Di Lello (Giornale di Sicilia del 6 marzo). Invero Di Lello, sollecitato a riflettere a distanza di circa un trentennio sulla sua esperienza di magistrato antimafia a Palermo (interrotta dalla successiva attività politico-parlamentare), ha detto diverse cose nel porre a confronto i magistrati di ieri e di oggi. Ma riassumo qui quelle più rilevanti, anche rispetto alla replica caselliana. Primo: sostiene Di Lello che, a partire da un certo punto in poi, una parte dei magistrati – forse anche ispirata dall’«ondata giustizialista» – ha sposato «l’idea che toccasse alla magistratura salvare l’Italia»; e che, nel perseguire questo obiettivo di moralizzazione pubblica, sarebbe passata in secondo piano l’accuratezza delle indagini sino al punto che si sarebbero anche celebrati processi basati su ipotesi accusatorie «risibili». Secondo: sostiene sempre Di Lello che la magistratura penale dovrebbe avviare una rinnovata riflessione sull’autonomia della pubblica amministrazione e della politica, non avendo essa ancora interiorizzato a sufficienza il principio della separazione dei poteri.

Orbene, cosa c’è di veramente nuovo, trasgressivo o addirittura scandaloso in affermazioni come queste, che dal canto mio condivido? Chi è a conoscenza del dibattito sulla giustizia penale che da tempo si svolge nel nostro paese – e alludo soprattutto a serie analisi saggistiche, lontane dalla superficiale contrapposizione politico-mediatica tra le opposte tifoserie dei «giustizialisti» e dei «garantisti» - sa bene che opinioni molto simili a quelle di Di Lello sono state manifestate, e continuano a essere espresse con dovizia di argomenti da studiosi molto accreditati di vario orientamento politico-ideologico, per nulla assimilabili a filo-mafiosi o a filo-corrotti affetti da garantismo peloso: basta dare uno sguardo alla pubblicistica più meditata in tema di giustizia per averne riscontri anche recentissimi (cfr. ad esempio S. Cassese, Il governo dei giudici, Laterza 2022).

Cosa obietta Caselli a Di Lello? L’ex procuratore di Palermo (al quale anch’io da siciliano, in ogni caso, mai cesserò di attestare gratitudine per il valoroso impegno antimafia) contesta, innanzitutto, che la magistratura si sia fatta trascinare dall’ondata giustizialista al punto da avviare indagini sulla base di ipotesi accusatorie assai labili. Ora, è possibile che Di Lello abbia un po' ecceduto nell’etichettare come «risibili» i presupposti di alcune indagini sfociate poi in esiti assolutori; ma non mi parrebbe davvero decisivo chiarire se questa forse poco felice etichettatura – come Caselli ha risentitamente creduto di dovere intendere - includesse (nelle intenzioni dell’intervistato) i casi richiamati a titolo esemplificativo di processi su politici come Mannino, Musotto o Giudice, instaurati appunto durante la gestione caselliana della procura palermitana. La questione di fondo su cui occorre oggi tornare a riflettere è di ordine generale, e non riguarda quindi questo o quel processo singolo celebrato a Palermo o altrove. Il dato indiscutibile, e preoccupante, è piuttosto questo: si aprono specie a carico di politici molte indagini che poi si risolvono, appunto, in un nulla di fatto. Tra le possibili cause, ravviserei la perdurante convinzione di alcuni magistrati di dovere fungere da «custodi della virtù» (A. Pizzorno) degli esponenti del ceto politico e di quello economico-imprenditoriale; per cui si fanno non di rado investigazioni che, anziché muovere da una preesistente ipotesi concreta di reato, vanno alla ricerca di reati «possibili». È lecito sollecitare una revisione critica di una simile convinzione da parte degli stessi esponenti della magistratura che la hanno finora interiorizzata?

La seconda cosa importante che Caselli rimprovera a Di Lello è – se ho ben compreso - di sottovalutare il fatto che la parte più coraggiosamente combattiva della magistratura ha evitato «il rischio concreto che la nostra democrazia crollasse». Con tutto il rispetto per Caselli, userei una certa cautela prima di fare affermazioni così perentoriamente impegnative in chiave macro-sistemica. Senza nulla togliere al grande (e talora eroico) contributo fornito dalle istituzioni giudiziarie nel contrasto di Mafiopoli e Tangentopoli, giungere a sostenere senza esitazione che la magistratura (o una sua parte) abbia svolto un ruolo addirittura salvifico della nostra democrazia in grave crisi nei primi anni Novanta è, infatti, una tesi su cui non risulta che concordino i più autorevoli storici e politologi di professione. E, anzi, non sono pochi oggi gli studiosi che, con buon fondamento, pensano che le cosiddette «rivoluzioni giudiziarie» abbiano finito col produrre - come anch’io ritengo – esiti politici complessivamente più negativi che positivi. È giustificato, allora, che questo ruolo salvifico se lo auto-attribuisca la stessa magistratura per bocca di una delle sue più rappresentative figure storiche? Forse, vale la pena discuterne più approfonditamente sotto plurime angolazioni disciplinari e professionali. Anche perché non si tratta di fare solo storiografia; ne va dell’autopercezione di ruolo che i magistrati in servizio possono avere di sé stessi nella realtà contemporanea.

*professore emerito di diritto penale all'università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia.

 

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