PALERMO. È stato in giro per le periferie di Palermo, lui che nei suoi film è abituato a metropoli buie e infernali. Ecco le impressioni di Abel Ferrara: «I mercati sono bei posti, ma io ho visitato un ghetto, Brancaccio - dice con quel suo accento newyorchese del Bronx - un luogo come ce ne sono in ogni parte del mondo. Esistono forse città senza fuori di testa, poveracci, disperati? Non ho conosciuto nessuno a Brancaccio ma so bene che anche lì ci sono tante persone per bene: ovunque c'è il negativo e il positivo, e i soldi non c'entrano niente. C'è solo chi rispetta la vita e chi no».
Ferrara è stato ospite dell'ultima tappa della rassegna «Cantieri del contemporaneo»: il regista di Pasolini ha incontrato il pubblico ai Cantieri, in una serata «diretta» da Franco Maresco, accompagnato dallo sceneggiatore Maurizio Braucci, dal montatore Fabio Nunziata, e da Fulvio Baglivi. Maresco: «Era un mio desiderio avere qui Abel per parlare del suo cinema. E finalmente è arrivato, per la prima volta in Sicilia. È un regista indipendente nella testa, libero, uno che non accetta compromessi, imposizioni. Una figura anomala nel cinema americano».
E Ferrara: «Non ero mai stato in Sicilia, ma l'avevo sognata». Genera intorno a sé un'atmosfera indefinibile: parla di Bene e Male, Gesù e Buddha - si è convertito al buddhismo - spiritualità e violenza. Guarda una scena de Il cattivo tenente, in cui Harvey Keitel, il poliziotto protagonista, in preda a una crisi mistica, comprende il significato del perdono: «Alle elementari, a New York, ci portavano in chiesa: in prima fila, ero costretto a guardare Gesù insanguinato sulla croce a vedere tutto quel dolore. Ecco, quelle mattine nella chiesa del Bronx hanno segnato la mia spiritualità», spiega, come se lui stesso si fosse calato in quella storia.
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