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Mafia a Palermo. Gino u mitra e l’oro del clan: «Mai avuto legami con lui»

Rosario Luca, uno dei tre fratelli a capo della società che fondeva i preziosi, nega i contatti con il boss della Kalsa: «Le nostre madri sono cugine, non lo vedo da anni»

I lingotti che viaggiavano nascosti nelle auto, frutto della fusione di collane, bracciali e anelli rubati, sono stati per anni la forma più redditizia di riciclaggio di Cosa nostra. Un sistema che passava dai compro oro compiacenti e portava i vari oggetti di valore, rubati in precedenza, in varie fonderie soprattutto della Campania, in modo da trasformarli in merce «pulita e immacolata».

In pochi anni, tra il 2016 e il 2018, sarebbero transitate in città oltre due tonnellate d’oro per un valore superiore a 75 milioni, con il sostegno del boss della Kalsa Luigi Abbate, detto Gino u mitra, che aveva finanziato l’avvio del business con centomila euro.

È la cornice investigativa in cui si inserisce il processo ai fratelli Luca, accusati di avere gestito uno dei canali più affidabili per la fusione clandestina e la rivendita del metallo prezioso. «Facemu d’accussì… facemu i virghi», diceva Vincenzo Luca in un’intercettazione del 2013, evocando le barre ricavate dai gioielli o dai rottami d’oro che venivano liquefatti per poi realizzare piccoli lingotti.

Un viaggio all’alba «cu papà» per portarle a Napoli, destinazione abituale per questo tipo di operazione. Davanti alla quinta sezione penale del Tribunale, queste parole sono state al centro del controesame di Rosario Luca, in carcere insieme a Vincenzo, mentre l’altro fratello Francesco si trova ai domiciliari. Un passaggio chiave nel processo sull’oro sporco di Cosa nostra che vede imputate altre 36 persone.

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