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Vent'anni di Addiopizzo, l'intervista al procuratore Maurizio de Lucia: «Ormai è un fenomeno sociale, la rivoluzione richiede tempo»

Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia

Prima da sostituto, poi alla Direzione nazionale antimafia, successivamente a Messina come capo della Dna e infine da procuratore capo a Palermo: Maurizio de Lucia è tra i magistrati che più hanno indagato sul racket delle estorsioni: da più di trent’anni combatte contro una zona grigia forse più rischiosa e meno redditizia di un grande appalto, ma che la mafia ritiene indispensabile per controllare il territorio e ottenere quella liquidità che serve ad alimentare gli altri affari dell’organizzazione, garantendo anche il mantenimento dei parenti dei detenuti. «Non c’è strumento migliore di imporre una tassa come il pizzo per assicurare alla mafia la sua sovranità», è la sua definizione ma oggi, forse, la realtà è cambiata rispetto al passato, grazie al gesto di ribellione di sette giovani poco meno che trentenni. Ispirati dalla storia di Libero Grassi - l’imprenditore ucciso per essersi rifiutato di assecondare le richieste degli esattori - fondarono Addiopizzo, trascinando poi moltissimi commercianti.

Il bilancio è positivo nonostante le denunce siano ancora troppo poche?

«Bisogna ricordare da dove siamo partiti, cioè da un’autostrada distrutta e dai tanti morti degli anni ‘80 e ‘90. Nel frattempo la mafia si è fortemente indebolita grazie all’evidente reazione dello Stato, che ha fatto di questa missione un obiettivo prioritario. Il limite è che non è stata ancora distrutta: questo percorso, però, non si raggiunge solo attraverso l’impegno delle forze dell’ordine e dei magistrati che pure svolgono il loro ruolo in maniera importante, ma si costruisce per mezzo di strutture culturali ed economiche che consentono lo sviluppo delle città e dei territori, indebolendo gli spazi dove prospera l’illegalità. In questo senso Addiopizzo è un fenomeno sociale perché è un movimento composto da giovani, nato vent’anni fa senza che ci sia stato bisogno di una legge per istituirlo, che ha sviluppato nel tempo e con continuità un sostegno decisivo per quei commercianti che hanno avuto il coraggio di dire no nel momento in cui sono stati minacciati. È vero che le denunce potrebbero essere di più, ma ho sempre detto che la costruzione di questi movimenti non si fa con una rivoluzione veloce, bensì con una lunga camminata verso il traguardo».

Secondo lei c’è il rischio che la passeggiata si trasformi in un’interminabile maratona? Ieri i giovani inventavano un modo di lottare contro l’illegalità, di questi tempi sono in prima linea con le baby gang, come se certi argomenti non interessassero più...

«I giovani non sono tutti uguali, molto dipende dalla loro formazione e dal tipo di cultura che assorbono. Ci sono famiglie che li aiutano a crescere e a maturare, altre che invece li abbandonano a se stessi con il rischio che possano diventare prede del mercato della droga. Ed è un problema serissimo in alcuni quartieri di questa città, dove i grandi non fanno fino in fondo il loro dovere e mancano scuole efficienti, impianti sportivi e infrastrutture. Figure come Libero Grassi dovrebbero essere utilizzate anche per spiegare ai giovani che lo sviluppo si basa sul commercio sano e sul senso di responsabilità delle persone, tutte cose che sono i veri strumenti della lotta alla mafia».

Ecco, Grassi qualche mese prima di essere ucciso aveva inviato una lettera al Giornale di Sicilia, sostanzialmente prendendo in giro «il caro estortore» e invocando un cambio di passo culturale e sociale in città. È un esempio sempre attuale?

«La memoria, che è importantissima, deve essere conservata. Libero Grassi morì in una condizione di totale isolamento perché era diventato un simbolo, proprio grazie alla vostra testata che aveva pubblicato la famosa lettera. Oggi probabilmente sarebbe meno solo, però non siamo ancora alla rivoluzione delle coscienze».

In un’intervista del 2013 lei aveva dichiarato che c’era una resistenza attiva, ma il fenomeno delle estorsioni era sempre diffuso. È ancora così?

«Sì, le richieste di pizzo continuiamo a registrarle anche se, per fortuna, in maniera sempre meno pervasiva. Il merito di Addiopizzo, di cui oggi celebriamo il ventennale, è di avere costruito un sistema che ha aiutato molti esercenti a liberarsi dal giogo che li opprimeva. Adesso i mafiosi riflettono bene su quali sono i loro obiettivi, cioè vanno solo da chi ha dimostrato disponibilità nei loro confronti, tenendosi lontani da quelli che potrebbero denunciarli. Anche l’approccio è cambiato: cercano di non essere violenti per evitare di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine».

Cosa nostra non si limita a taglieggiare i commercianti: quanto è grande il pericolo di infiltrazioni nelle pubbliche amministrazioni?

«Le imprese mafiose hanno un grande interesse a entrare sui mercati degli appalti, in particolare ora che la legislazione in materia di subappalti è diventata meno rigida. Queste infiltrazioni consentono ai mafiosi di dialogare in quei salotti buoni di imprenditoria, politica e borghesia che sono tipici di qualunque realtà economica sviluppata».

La politica, appunto. Lei ultimamente è stato molto critico.

«Dal punto di vista simbolico tutti sono contro la mafia, ma a questa affermazione devono seguire comportamenti coerenti. Penso appunto al mondo degli appalti, quindi alla necessità di gestioni trasparenti. Ma anche a tutta la legislazione antimafia che, in questo momento, è ancora uno strumento solido di contrasto, anche se viene messa in gioco costantemente attraverso una serie di proposte di riforma. Come, ad esempio, nel processo penale dove occorrono regole chiare, trasparenti e soprattutto che consentano di accorciare i tempi: attualmente, a parte i processi di mafia, tutto il resto del sistema penale fa acqua, perché è troppo farraginoso, lento e non consente di fare giustizia né per le vittime dei reati né per gli imputati».

La recente relazione al Parlamento ha messo in evidenza che il vertice di Cosa Nostra non esiste più o, comunque, è stato azzoppato. E allora chi prende le decisioni?

«Matteo Messina Denaro è stato l’ultimo grande capo e ha smesso di esserlo dopo la cattura. Uno degli sforzi di Cosa Nostra è il tentativo di ricostruire la cupola, il centro da cui prendere le decisioni strategiche per gestire gli affari. Per ora vanno avanti con le attività ordinarie, che seguono regole codificate da oltre un secolo: una mafia a bassa intensità, anche se nei mandamenti un punto di riferimento lo si individua sempre e spesso sono gli esponenti delle famiglie più antiche, gente a cui viene riconosciuta autorevolezza. Semmai, ed è questo l’aspetto più preoccupante, ci sono ancora troppi giovani che guardano a Cosa Nostra come a una possibilità di affermazione personale e a una scorciatoia per realizzare i propri obiettivi».

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