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«La signora mi disse che non avrei ricevuto compensi»: gli insegnanti svelano come operavano le due scuole a Cefalù e Termini

Le testimonianze dell'inchiesta che ha portato a 5 misure cautelari. Molti docenti accettavano per ottenere il punteggio da usare per avere una cattedra pubblica

Istituto paritario Ariosto di Termini Imerese

Quasi un centinaio di dichiarazioni sui metodi tutt’altro che cristallini degli istituti paritari, una sorta di rivolta collettiva dopo anni di sfruttamento sul lavoro. Insegnanti e personale Ata delle due scuole hanno raccontato il loro percorso agli inquirenti. Solo in pochi hanno negato, mentre altri, dopo un primo momento di reticenza, si sono ripresentati in caserma per raccontare la verità. Hanno detto di essere stati titubanti, in un primo momento, per paura di perdere il lavoro, seppure sottopagato.

Sfruttati e costretti a versare il misero stipendio al datore di lavoro pur di acquisire il punteggio necessario per potere aspirare a un definitivo ruolo nella scuola pubblica, una triste storia di caporalato andata in scena in due istituti paritari di Cefalù e Termini Imerese gestiti da una coop. Istituzioni che dovrebbero preparare i giovani ad affrontare il futuro e che tra le proprie missioni dovrebbero avere anche la legalità e l’etica. Ma, in base a risultati di un’indagine dei carabinieri e della procura di Termini Imerese, così non è andata allo Scicolone di Cefalù e all’Ariosto di Termini Imerese, dove ben 118 lavoratori sarebbero stati spremuti. E ieri è scattata un’operazione con cinque misure cautelari per estorsione e sfruttamento del lavoro: ai domiciliari è finita Patrizia Ficicchia di 61 anni, presidente del consiglio di amministrazione e rappresentante legale della cooperativa La Rocca Cefalù, che gestisce gli istituti paritari di secondo grado, mentre quattro interdittive con il divieto temporaneo di esercitare attività professionale e imprenditoriale nel settore dell’insegnamento per 12 mesi sono state emesse dal gip di Termini Imerese Gregorio Balsamo nei confronti del preside Pietro Giambelluca di 73 anni e del figlio Daniele di 40, rispettivamente consigliere e gestore di fatto, Giada Altilio di 26, addetta alla segreteria, e Alice Ficicchia di 56, responsabile della scuola di Termini, rispettivamente figlia e sorella della principale indagata.

«Quando parlai con la signora Patrizia Ficicchia - racconta un prof - mi era stato illustrato che, sebbene previsto dal contratto, non avrei ricevuto alcun compenso economico per il mio insegnamento e che dunque avrei dovuto restituire il denaro che mi veniva corrisposto. Accettai tali condizioni in quanto quelle ore di insegnamento mi sarebbero servite per fare punteggio nelle graduatorie statali». Un altro insegnante riferisce del dramma del precariato: «Chi come noi vive sulla propria pelle il dramma del precariato scolastico, ma è animato da estremo amore verso questo mestiere, sa quanto sia difficile muovere i primi passi dell’insegnamento in Sicilia. Riuscire a fare esperienze dietro una cattedra senza dovere emigrare al Nord è il motivo per cui ho accettato le condizioni». In tanti raccontano di messaggi whatsapp da parte di Patrizia Ficicchia con toni pressanti e intimidatori, dell’invito a «levarsi i debiti», cioè a restituire lo stipendio.

Le testimonianze sono numerose e occupano la gran parte dell’ordinanza del giudice. «La restituzione delle somme avviene in presidenza o nella stanza di Daniele Giambelluca - afferma un altro docente -. Le restituzioni avvenivano perché le persone sopra indicate ci comunicavano che il denaro restituito serviva a mantenere basse le rette e, mettendoci alla prova nel restituire le quote percepite, per capire se rinnovare o meno il contratto per l’anno successivo. Abbiamo una chat di gruppo in cui c’è anche Patrizia Ficicchia, nella quale questa sollecita la restituzione dei pagamenti da parte di alcuni».

L’indagine, condotta dai carabinieri della compagnia di Cefalù con il coordinamento della Procura di Termini, ha preso in esame un periodo di tempo dal 2021 allo scorso anno, quando un’insegnante confidò a un carabiniere di essere costretta a lavorare per più ore di quelle ufficiali (2 o 4 a settimana) e di dovere restituire i guadagni e il Tfr maturato. Da questo input partirono gli accertamenti: si scoprì che solo le trattenute previdenziali venivano versate. «Le vittime, obbligate mediante minaccia, oppure agevolate dalla necessità di ottenere i punteggi per accedere alle graduatorie pubbliche per le successive assunzioni - spiegano gli inquirenti - nonché dal loro stato di bisogno connesso alla crisi economica e occupazionale, avrebbero prestato la loro attività lavorativa in difformità ed in misura sproporzionata alla contrattazione nazionale se non finanche a titolo gratuito, restituendo la retribuzione formalmente ottenuta per il lavoro prestato». Bassi i costi di gestione, massimi i profitti.

Gli accertamenti tecnici hanno fatto emergere che il personale docente (la gran parte dei dipendenti) è stato contrattualizzato con il sesto livello del Ccnl Scuole private laiche con un orario di lavoro che oscilla tra le 2 e le 4 ore a settimana (il tempo pieno è di 18 ore). È emerso che i dipendenti svolgessero delle ore maggiori rispetto a quelle previste, coprendo poi le ore aggiuntive, che spesso variavano dalle 2 alle 10 a settimana, con degli accordi di collaborazione gratuita di prestazione d’opera professionale. L’azienda, visti i bassi versamenti, sarebbe riuscita così a ottenere senza difficoltà il Durc (Documento unico di regolarità contributiva), necessario per la stipula di un contratto di servizio con enti pubblici o privati ma anche di beneficiare di agevolazioni della pubblica amministrazione.

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