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Palermo, il magistrato Marzia Sabella: «La mafia prova a riemergere. Droga, armi, pizzo: torna l’allarme»

Intervista al procuratore aggiunto. Sulle stragi del 1992 e le bombe del 1993, dice: «Serve una Commissione d’inchiesta formata da esponenti di alto profilo e privi di preconcetti»

Il ritorno ai conflitti a fuoco, il business della droga sempre meno dipendente dalla 'ndrangheta, la grande disponibilità di armi e poi il pizzo, imposto e pagato a tappeto, come forma di controllo del territorio. Cosa nostra ha una voglia irrefrenabile di rialzare la testa. Lo sa bene il procuratore aggiunto  di Palermo Marzia Sabella, da anni in prima linea nella lotta alla mafia: «C'è un ritorno a modalità che sono preoccupanti», afferma.

Cosa intende?

«C'è una criminalità organizzata, data per moribonda da un lato e stracciona dall'altro, perché non faceva grandi affari, che prova a riprendersi spazi che anni di attività giudiziaria hanno ristretto. La mafia stragista non esiste più, i capi storici viventi sono al 41-bis. Sembrava che quest'organizzazione criminale stentasse a controllare il territorio e invece lentamente prova a riemergere con i connotati del passato».

Quali scenari si aprono?

«C'è una forte disponibilità economica grazie ad un enorme traffico di stupefacenti. Registriamo una preoccupante ripresa. E poi è una città invasa dalle armi».

Un mese fa corso dei Mille e via XXVII Maggio sono diventati teatro di un far west. È stato ucciso il boss emergente Giancarlo Romano: cos'ha significato questa sparatoria?

«C'è un ritorno alla violenza, alla sopraffazione, che sembravano diventate mezzi di riserva estrema. Questo ritorno alla violenza fisica con uno sfrenato uso delle armi, non soltanto dal punto di vista strettamente mafioso, lo registriamo negli ultimi anni».

È un segnale di debolezza?

«Non parlerei né di forza né di debolezza perché le dinamiche dietro ogni fatto sono diverse. È bene precisare che il silenzio della mafia, negli scorsi anni, non è certamente stato meno grave. Però, questo ritorno a metodiche del passato è preoccupante».

Romano diceva: «A Palermo siamo a terra», «gente che rischia trent'anni per 10 mila euro». È la descrizione di una mafia molto lontana da quella che abbiamo conosciuto.

«Queste frasi dimostrano la consapevolezza che col pizzo riescono ad andare avanti fino ad un certo punto. I costi per la mafia sono tanti e gli associati rischiano tanti anni di galera per incassare poco. Però, commetteremmo un errore a pensare che la mafia non abbia importanti disponibilità economiche. La scorsa estate abbiamo sequestrato 9 tonnellate di cocaina».

Cosa nostra è tornata a produrre droga o continua a rifornirsi dalla 'ndrangheta?

«Continua ad avere rapporti con la mafia calabrese, ma sempre meno definibili di mera fornitura. Sembra che i ruoli comincino a parificarsi».

Citava il pizzo. A Palermo ancora in tanti pagano e alcuni negano di pagarlo: come mai?

«Le nostre indagini evidenziano che il pizzo si paga a tappeto. Qualche anno fa per molti era un orgoglio non pagare e denunciare. Io non credo che il pagamento o la negazione del pagamento avvengano per paura. Abbiamo dimostrato agli imprenditori che lo Stato è dalla loro parte. Credo invece che, in questi ultimi tempi, ci sia un calo della tensione etica. Inoltre, la mafia si presenta meno avida. Gli estorsori chiedono anche cifre basse in modo che si percepisca meno la vessazione, ma rimanga integro il controllo del territorio. La mafia è riuscita a creare una maggiore confidenza e una più facile convivenza».

Il 4 marzo 2024 è finita la latitanza del boss di Porta Nuova, Giuseppe Auteri.

«È un altro esempio di come la mafia stia riconquistando un certo potere. I latitanti storici li abbiamo arrestati tutti, manca solo Giovanni Motisi, ma arriveremo anche a lui. Auteri, tre anni fa, si dà latitante, continuando però ad occuparsi degli affari dell'organizzazione. Questo dimostra che la mafia vuole tornare ad essere capace ad assicurare le latitanze».

Ma tre anni di latitanza non sono certo gli oltre 40 di Bernardo Provenzano o i 30 di Messina Denaro.

«Quarant'anni fa i grandi boss, nei primi anni, non venivano cercati. Quando qualcuno cominciava a cercarli, era già troppo tardi, così si era accumulato un ritardo investigativo difficile da recuperare. Oggi è diverso. Nel caso di Auteri abbiamo dato subito la massima priorità all'arresto. Dovevamo far capire che i tempi di quelle latitanze trentennali sono finiti».

Lei che idea s'è fatta della latitanza di Messina Denaro e della sua cattura? Anche lei gli ha dato la caccia.

«Delle ultime indagini non parlo perché non le ho svolte personalmente e perché sono in corso. Io ho lavorato su di lui fino al 2014 e posso dire che c'è stato l'impegno delle migliori forze investigative di questo Paese. Era un latitante molto difficile, oltre a godere dell'appoggio smisurato del suo territorio, aveva un profilo diverso dai corleonesi a cui apparteneva. Dopo la sua cattura, che è un risultato straordinario frutto delle serissime attività investigative del mio ufficio e delle forze dell’ordine, è invece cominciata la solita noiosa dietrologia».

La morte di Messina Denaro ha fatto tramontare la possibilità di conoscere tutta la verità sulle stragi del 1992 e sulle bombe del 1993?

«Non credo avrebbe collaborato con la giustizia. Credo che l'unica maniera per ricostruire la verità sia costituire una Commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi formata da esponenti di alto profilo e privi di preconcetti di sorta con un approccio neutrale che consenta di svelare quelle pagine oscure della nostra Repubblica».

Un passo verso la verità si è compiuto sull'omicidio mafioso del sindacalista Mico Geraci avvenuto 25 anni fa.

«Se non avessimo provato a ricostruirlo, sarebbe stato tra i tanti omicidi dimenticati. Ci siamo serviti di collaboratori che al tempo non c'erano. Senza di loro sarebbe stato difficile trasformare le ipotesi in evidenze concrete e importanti. C'è un risultato anche se nessuna responsabilità penale è stata finora accertata».

Lei indaga sul delitto Mattarella. La sentenza d'appello per la strage di Bologna mette in luce i legami tra eversione nera e mafia. Quanto è vicina la verità?

«Si tratta di un procedimento in corso. Posso solo dire che, nonostante la sentenza di Palermo che ha ricondotto l’omicidio alla sola Cosa nostra, le indagini vanno avanti senza preconcetti e paraocchi. Siamo davanti ad un omicidio di una stagione particolare e, come per altri casi, non ci accontentiamo di restare in superficie».

Qualche anno fa disse: «Si tende a sminuire la figura del magistrato, quasi a farlo diventare un semplice impiegato». Ne è ancora convinta? Il governo dal 2026 introdurrà test psicoattitudinali per i magistrati.

«Confermo la mia affermazione, ma preferisco parlare di lavoro».

Marzia Sabella

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