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De Lucia: «Il cittadino Libero e il suo coraggio, la lotta alla mafia ha bisogno di tutti»

Intervista al procuratore di Palermo nel 32° anniversario dell’omicidio Grassi: se dovessi fare un paragone, penserei solo a Giorgio Ambrosoli

Maurizio de Lucia al centro nella foto

Ma chi l’ha detto che Cosa nostra è in ribasso? Certo, espressa dal capo della Direzione distrettuale antimafia, una considerazione del genere potrebbe apparire leggermente interessata. Maurizio de Lucia, 62 anni, nato a Trieste, di origini napoletane, ex sostituto in città, nel pool che fece condannare Totò Cuffaro, poi andato alla Dna e a guidare la Dda di Messina, dallo scorso anno è procuratore in città: ormai la sua città d’adozione, che conosce benissimo, come la mafia siciliana. E non solo quella, ovviamente.
È per questo che, nonostante la storica cattura di Matteo Messina Denaro, de Lucia non ritiene affatto che la lotta sia finita. Il controllo del territorio da parte dell’organizzazione resiste, così come la disponibilità di tanta, troppa gente nella ricerca di dialogo, appoggi, agevolazioni. Il brand Cosa nostra è ancora forte anche a livello internazionale: «In Sudamerica e nel Nordamerica, a New York e in Canada in particolare - afferma il procuratore - considerano la mafia delle nostre parti alla stregua di quell’organizzazione apparentemente invincibile che c’era negli anni ‘80». Non è più così, grazie all’incessante lavoro degli inquirenti e degli investigatori, della magistratura e delle forze dell’ordine, di tantissimi siciliani onesti e all’estremo sacrificio di tanti, che hanno dato la vita senza pensarci troppo su.

Ad esempio Libero Grassi, dottor de Lucia. Ucciso esattamente 32 anni fa, sotto casa, dal superkiller Salvino Madonia, mentre andava a lavorare, dopo avere scritto il proprio no al “caro estortore” sul Giornale di Sicilia del 10 gennaio 1991.

«Ad esempio Libero Grassi, sì. La straordinarietà della figura di questo imprenditore è che, nel lunghissimo elenco delle vittime di mafia, lui è un cittadino. Non è un magistrato, non un poliziotto o un carabiniere e nemmeno un politico: è un cittadino che fa il cittadino. Se dovessi fare un paragone, penserei solo a Giorgio Ambrosoli».

L’avvocato che venne definito un eroe borghese. Entrambi facevano solo convintamente il loro dovere.

«Grassi ha contribuito a creare una coscienza antimafia. Ha spinto i giovani di Addiopizzo a scendere in campo. Nel corso di questi tre decenni c’è stata una reazione organizzata dello Stato, è stata colpita la mafia militare, i boss hanno scoperto che l’impunità non c’è più. La differenza oggi la fanno le tante, tantissime condanne».

Tante condanne ma anche tante nuove indagini, che dimostrano che il pizzo si continua a pagare.

«Indubbiamente Cosa nostra è più debole, rispetto al passato, e l’estorsione serve a rafforzarla, anche nel controllo del territorio. Però ci sono altre variabili: è davvero incomprensibile, oggi, non denunciare il pizzo. E allora, se questo (non) avviene, è perché ci sono anche tante utilità e connivenze, grazie al rapporto tra certi imprenditori e i mafiosi».

Un’analisi ampiamente condivisa da Addiopizzo.

«Per quel che riguarda il piccolo commercio, pagare solo per non subire rapine o danni nei negozi è qualcosa che appare superato. Sono più importanti invece la gestione del mercato e la possibilità di aprire o di non far aprire negozi concorrenti a pochi passi dal tuo. In questo l’organizzazione mafiosa ha il potere non solo di aiutare ma anche di far mantenere lo status quo. E questo si risolve in un danno enorme per tutto il sistema economico».

Accanto a questo assistiamo a una recrudescenza di episodi ricorrenti: le spaccate, i furti di auto...

«Sono fenomeni che dimostrano il grande impoverimento della società: le spaccate creano un enorme danno al commerciante, anche se magari è assicurato, ma non procurano grandi profitti al ladro. Anzi il guadagno, se c’è, è minimo».

Una volta l’allarme sociale veniva evitato, la mafia garantiva l’ordine. E oggi?

«La mafia non è in grado di gestire il problema delle spaccate, ma affronta il welfare alternativo: fa la spesa a chi è in difficoltà, lo fidelizza».

Fin qui parliamo di affari di livello comunque contenuto. Ma che fine ha fatto il tavolino degli appalti? Definitivamente smantellato?

«I tavolini di una volta, come li conoscevamo, non ci sono più per tante ragioni: ma il rischio che tornino c’è. Se vale per il piccolo imprenditore, anche la grande impresa può avere l’interesse di ottenere l’appoggio mafioso. Rispetto al passato la differenza sostanziale nel meccanismo non è cercare appoggi per ottenere i finanziamenti ma per avere i subappalti. È un qualcosa che ci aspettiamo anche per i fondi del Pnrr, che tutte le mafie stanno attendendo. E per questo la Dia sarà particolarmente attenta alle infiltrazioni attraverso i subappalti».

Resta cioè fondamentale l’attacco ai patrimoni mafiosi.

«Il pilastro della lotta è l’impoverimento delle mafie. Si diventa mafiosi perché si vuole arricchire: noi dobbiamo smontare il binomio ricchezza-mafia. Questi strumenti, al di là di alcuni episodi che ne hanno segnato la storia, sono ancor oggi decisivi».

Insomma, la mafia non è poi così inoffensiva.

«Assolutamente no. Però rispetto a prima le manca qualcosa: un organismo di vertice, quella commissione che garantiva unitarietà e dunque forza. Una caratteristica costante, nella storia. L’assenza del vertice la rende in tutto simile a una qualsiasi altra associazione criminale. Per tornare a essere forte e dialogare con i cartelli dei narcos, con la stessa ndrangheta, per gestire i traffici di droga, che procurano tanto, tanto denaro, dunque per essere di nuovo ricca, Cosa nostra deve tornare ad avere un vertice».

Ci ha provato due volte, tra il 2008 e il 2018: l’avete sempre fermata.

«I sequestri di droga, cinque tonnellate di cocaina in un colpo solo, confermano che i calabresi gestiscono l’import/export in tutta Europa, che la mafia e i palermitani acquistano stupefacenti per il fiorente mercato siciliano, ma anche che a livello internazionale permane la capacità di compartecipare con la ndrangheta agli affari. In Sudamerica, a New York e in Canada continuano a considerare importante il brand di Cosa nostra. Ma se manca il vertice... Anche per inquinare i mercati e fare affari con gli appalti devi avere i soldi: e i soldi li fai con la cocaina».

Voi avete tra l’altro catturato l’ultimo latitante della Cosa nostra che fu potentissima e stragista. Ma era veramente lui il capo, oggi?

«A Trapani sì, comandava. Poi ha fatto affari in tutta la Sicilia e dunque aveva un notevole carisma nell’intera Isola. Era un capo-capo dei vecchi tempi. A Palermo aveva tanti rapporti ma non comandava. Perché appunto l’organismo collegiale di vertice non c’era, non c’è».

Paradossalmente, lei ha dovuto “difendere” quella cattura. Proprio oggi esce, per i tipi di Feltrinelli, il suo libro - scritto col giornalista Salvo Palazzolo - intitolato significativamente La cattura.

«I fatti sono quelli. Avevo subito detto che se c’è chi crede che la terra sia piatta non ci si può fare niente».

Nel libro raccontate retroscena inediti della fine della latitanza del boss. Quel che colpisce, in una storia così, è la latitanza a casa propria. E torniamo al principio, a Libero Grassi: qualcuno, probabilmente tanta gente, a Campobello di Mazara e Castelvetrano e non solo, si è girato dall’altra parte. Colpevolmente. Gravemente.

«Non si può escludere. Ma il reato di favoreggiamento lo commette solo chi dà un contributo. Grassi no, lui non si girò dall’altra parte. Le estorsioni oggi le scopri anche con le intercettazioni, ma il vero segnale è la denuncia. Libero Grassi fu veramente libero e denunciò in tempi che non erano i nostri. Oggi la gente che denuncia deve sapere che da noi avrà sempre la massima collaborazione, nessuno rimarrà solo. Come purtroppo rimase solo Grassi».

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