Comandava dal carcere, utilizzando il figlio ma anche vecchi e nuovi volti dei clan: da lì faceva partire, per lo snodo del quartiere palermitano del Villaggio Santa Rosalia, ordini sulla gestione del mandamento. Con le videochiamate - consentite dato che si era in tempo di Covid e di quarantena - disponeva chi doveva reggere le sorti della famiglia mafiosa, chi poteva vendere i crisantemi nei pressi dei cimiteri di Sant’Orsola e Santa Maria dei Rotoli, a favore di imprese ragusane legate ai clan della stidda Carbonaro-Dominante di Vittoria; stabiliva a chi era concesso aprire centri scommesse o bar e panifici, a chi andavano i contanti per il mantenimento dei familiari dei detenuti. Uno spaccato di vita quotidiana sotto le insegne di Cosa nostra gestita - secondo l’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e della guardia di finanza - da Salvatore Sorrentino, 58 anni, in carcere dal dicembre 2018 nell’ambito dell’operazione «Cupola. Forte del suo essere «protervamente ed irriducibilmente mafioso», successore del capomafia Settimo Mineo, Sorrentino ha aperto la scia al figlio Vincenzo, 22 anni, già assurto a ruolo di vertice del clan che dopo i colloqui smistava le direttive al clan inserito nel mandamento di Pagliarelli.
Il figlio d’arte poteva contare sul fido Leonardo Marino, 34 anni: è accusato di mafia e traffico di stupefacenti. Un altro personaggio noto alle forze dell’ordine avrebbe gestito rapporti e controversie tra detenuti, condizionato il comportamento dei carcerati-lavoratori. In carcere un ruolo di controllo mafioso lo avrebbe avuto pure Giovanni Cancemi, 53 anni, che sebbene detenuto è accusato di aver gestito affari nel settore del movimento terra.
L’ordine di custodia cautelare dell’ordinanza ribattezzata «Villaggio di famiglia» - più di 1.800 pagine - è firmato dal gip Walter Turturici su richiesta della procura diretta da Maurizio de Lucia con il coordinamento dell’aggiunto Marzia Sabella.
Le indagini sono state condotte dal nucleo di polizia economico- finanziaria Gico della guardia di finanza, diretta dal colonnello Gianluca Angelini. Un ruolo fondamentale lo ha avuto il personale della polizia penitenziaria del carcere di Pagliarelli: le microspie e le telecamere hanno ripreso gesti, e frasi pronunciate in silenzio che l’analisi del labiale ha svelato cosa c’era dietro.
L’ordine di arresto - a molti notificato negli istituti penitenziari dove sono detenuti - riguarda 25 accusati di appartenere (come capi e come gregari) al clan mafioso; c’è un indagato agli arresti domiciliari, per 7 è stata disposta la misura interdittiva del divieto di esercitare attività imprenditoriali. Ci sono anche diversi sequestri nei confronti di aziende utilizzate da prestanome del boss con un trasferimento fraudolento di valori: lavori di ristrutturazione, investimenti per rilanciare o aprire attività, erano pagati in contati con i soldi della cassa del mandamento. L’accusa per gli indagati è, a vario titolo, di partecipazione e concorso esterno in associazione mafiosa con l’aggravante dell’associazione armata, il trasferimento fraudolento di valori al fine di agevolare Cosa Nostra, e il traffico di stupefacenti (sono documentati rapporti per l’acquisto di partite di droga dalla Calabria e la vendita in una piazza ritenuta florida come quella di Marsala).
I finanzieri del comando provinciale hanno coordinato le operazioni di notifica delle ordinanze di custodia cautelare: ci sono decide di indagati, nomi e cognomi di persone vicine ai capi del clan che sono rimasti sotto i riflettori degli inquirenti per il loro ruolo. Per loro il gip non ha ritenuto necessaria l’arresto. Ma hanno tutti avuto - secondo l’accusa - un ruolo chiave nella gestione degli affari del clan.
C’è anche un ruolo di primo piano di diverse mogli di detenuti e boss, che utilizzando anche loro i colloqui con i congiunti, facevano da volano e trasmettevano disposizioni precise. Una di queste, Emanuela Lombardo, moglie di Salvatore Sorrentino, era non solo una messaggera dei dictat del marito e del figlio, ma aveva anche un ruolo operativo.
Il blitz ha visto impegnati per l’esecuzione del provvedimento 220 militari della guardia di finanza, in forza ai reparti di Palermo, Caltanissetta, Agrigento, Siracusa e Trapani: oltre alle notifiche sono state fatte numerose perquisizioni nelle case o in garage e magazzini nella disponibilità degli indagati. A venti arrestati, che direttamente o tramite i propri familiari lo percepivano, è arrivato lo stop al «reddito di cittadinanza».
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