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Cosa nostra e l'attacco alla democrazia: così dopo le stragi del '92 e '93 cambiò strategia

Il dibattito si è tenuto al museo No Mafia Memorial di Palermo

L’attacco allo Stato portato avanti da cosa nostra nel 1993 in risposta a quello che fu il maxi processo, ad oggi è ancora il più grande processo penale mai celebrato al mondo, è cristallizzato nel tempo dalle pagine colorate di rosso della stampa di allora. Un dibattito che si è riaperto questo pomeriggio, al museo No Mafia memorial di Palermo, in corso Vittorio Emanuele, dove Umberto Santino, presidente della fondazione, ha discusso con Piergiorgio Morosini, presidente del tribunale di Palermo, il giornalista Salvatore Cusimano e la professoressa Alessandra Dino.

È il culmine della stagione stragista dei corleonesi, iniziata nel ’92 con le stragi di Capaci e via D’Amelio e proseguita circa un anno dopo, il 14 maggio del ’93, con l’esplosione della bomba indirizzata al giornalista Maurizio Costanzo, rimasto illeso, in via Fauro a Roma nei pressi del teatro Parioli. Da quel momento un'escalation: cosa nostra colpisce Firenze il 27 maggio - attentato in via dei Gergofili -, e due mesi dopo la galleria di arte moderna di Milano. Poi l’attacco alle chiese, di nuovo nella capitale, con due ordigni davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano e la chiesa di San Giorgio a Velabro. Una stagione piena di luci (poche) e ombre (tante), che ancora oggi porta alla ribalta del dibattito pubblico accuse e insinuazioni mosse al mondo della politica tra chi possa aver avallato la strategia e chi, trattando, ha posto un punto.

Domande senza risposta, orfane di molti processi conclusi in un nulla di fatto, che provano a scavare tra le pagine della storia, tentando di trovare il fil rouge: «Nelle stragi del ’92 e del ’93 c'è stata la mafia certamente, ma già assistiamo ad un cambio di strategia - sottolinea Santino -, si muta il bersaglio e si colpiscono le chiese e la cultura. La domanda è se sia stata soltanto la mafia, che aveva da vendicarsi e che voleva l’abolizione della legislazione antimafia, o se c’era un motivo politico. Hanno visto che il cavallo vincitore era un altro, Forza Italia, e si sono uniti a loro. La mafia si è anche incontrata con altri soggetti: ricordiamo che gran parte dei messaggi era firmata Falange armata, che poi dopo varie inchieste si è appurato essere ufficiali del Sismi, cioè servizi segreti. Bisogna vedere se ci sono state sponde politiche - prosegue - le stragi finiscono nel ’94, poi le lezioni e il mutamento del quadro politico. Certo, il dato è che i mafiosi sono tutti in carcere».

Ai dubbi si aggiunge anche Cusimano, che quegli anni li ha vissuti e raccontanti: «La cosa che è sicura è che la mafia ha convissuto con lo Stato per decenni ed ad un certo punto questo equilibrio si è rotto - spiega -, di mezzo c’è il maxi processo, il pool antimafia, e quindi un cambio di rotta nella lotta alla mafia. Anche se senza mai avere realmente una strategia. La domanda è perché cosa nostra percorre questa strategia stagista: c’è chi dice sia solo una follia di Riina, c’è invece chi parla di un disegno politico. I magistrati devono sciogliere le riserve, sempre se riescano, visto che molti processi sono finiti con un nulla di fatto». E prosegue analizzando quella che è stata una «aggressione a tutto campo, che obbediva ad una logica incomprensibile: la mafia non aveva interessi ad esacerbare la risposta dello Stato, lo dimostra il fatto che dopo la strage di Capaci il decreto Falcone si era arenato, i partiti di sinistra lo definivano liberticida. Ci vuole il 19 luglio per applicarlo. Allora, se si matura una strategia antimafia era un modo per chiedere ulteriori misure restrittive e andava contro interesse dello Stato ma serviva farlo, la domanda è perché? Lo stesso Ciampi disse che nel ’93 temette un colpo di stato: chi lo voleva?».

Nel video parlano Piergiorgio Morosini, presidente del tribunale, Umberto Santino, presidente di No Mafia Memorial, e Salvatore Cusimano, giornalista

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