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De Lucia: «Non possiamo perseguire un paese che ha fatto finta di non vedere Messina Denaro»

Il procuratore di Palermo è intervenuto a un’iniziativa organizzata a Cinisi da Casa Memoria per il 45esimo anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato

Maurizio De Lucia a Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato (frame dal video diffuso sulla pagina Facebook)

Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia è tornato a parlare delle coperture della latitanza di Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano arrestato a Palermo lo scorso 16 gennaio, nel corso del suo intervento a un’iniziativa organizzata a Cinisi da Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato per il 45esimo anniversario dell’omicidio del giornalista e militante di Dp ucciso dalla mafia. «Ci sono - ha detto il procuratore capo - due livelli: quello di chi ha contribuito alla latitanza di Matteo Messina Denaro e quello dei tanti che non possono non avere visto uno che stava a Campobello di Mazara da anni. Noi magistrati perseguiamo chi lo ha aiutato, non possiamo certo perseguire un paese che ha fatto finita di non vedere. Ciò non toglie che questo sia un enorme problema civile».

Secondo il magistrato, «le relazioni che esistono tra il mondo dello Stato e quello delle mafie sono complesse da sempre». De Lucia, rispondendo a una domanda, ha poi affondato la questione dei rapporti tra la polizia giudiziaria e i cosiddetti confidenti. «Soprattutto negli anni di Peppino Impastato - ha detto - c'era una sorta di scambio sommerso tra le due parti e quei rapporti assolutamente irrilevanti penalmente a volte rischiavano di tradursi in favori per la mafia». Ma «le cose cambiano - ha proseguito - quando le indagini contro la mafia le fanno i magistrati come Chinnici e Falcone e allora i confidenti che facevano fare le carriere ma non i processi diventano collaboratori di giustizia e lì cambia il mondo perché c'è un testimone che guarda in faccia la mafia in un’aula di giustizia e racconta quel che sa davanti a un giudice». «E allora - ha concluso - il rapporto non è più tra carabiniere o poliziotto e il confidente ma c'è la gestione dei magistrati che consente processi e condanne».

«La cattura di Messina Denaro - ha aggiunto De Lucia - è un punto ma non segna la fine, piuttosto un inizio. Certamente è un evento che doveva accadere perché non era tollerabile che si pensasse che esistono impunità lunghe decenni». «Premessa l’importanza della cattura di Messina Denaro - ha aggiunto - è bene precisare che in questi 30 anni non è che non sia stato fatto nulla: i boss, soprattutto corleonesi, sono stati arrestati e condannati e certamente è stato indebolita l'ala militare dell’organizzazione mafiosa che comunque indirettamente dà forza alla cosiddetta alta mafia che non esiste senza la violenza». De Lucia è poi tornato a parlare della cosiddetta «borghesia mafiosa», quella parte della società «cresciuta in un rapporto insano con la mafia e abituata a risolvere i propri problemi rivolgendosi al boss con cui aveva un rapporto di mutuo riconoscimento». «Cosa che - ha detto inoltre - accade pure ora che il mafioso è in difficoltà. E questa ricerca del dialogo di fatto rafforza la mafia».

Secondo De Lucia, l'Italia «ha tante cose che non vanno ma ha ha avuto anche eroi civili, che non dobbiamo dimenticare, persone che hanno dato sacrificato la loro vita nonostante avrebbero potuto fare un’altra scelta. Alludo ad esempio a Peppino Impastato e Umberto Ambrsoli, due persone lontane anni luce per formazione e convinzioni politiche, uccise perché coltivano lo stesso ideale di liberazione dalla mafia».

«La mafia - ha detto inoltre il procuratore capo - oggi è in una situazione complicata. Il modo di ragionare dei mafiosi che intercettiamo è uguale a quello degli anni '80. Una serie di "regole" permangono e questo fa sì che Cosa nostra non diventi una struttura "orizzontale" come la camorra. La mafia conserva la sua inclinazione a cercare il dialogo con certi soggetti come la politica ma per dialogare devi avere un vertice».

«Ora, però,- ha proseguito - la struttura monocratica è difficile da ricostruire sia perché c'è un’attività repressiva intelligente, sia perché Cosa nostra rispetto agli anni d’oro dei traffici di droga è più povera». «I clan - ha spiegato - hanno capito che per tornare forti serve la potenza economica: da qui il ripristino dei canali di traffico degli stupefacenti attraverso le 'ndrine». «Per avere relazioni politiche - ha concluso - devi presentarti con la pistola e con tanti soldi e l’unica cosa che consente di avere guadagni importanti e immediati è la droga».

 

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