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«Mafiosi a vita»: ecco perché restano in carcere otto arrestati del blitz di Palermo

Massimo Mulè

Il legame con Cosa nostra sarebbe rimasto stabile nonostante le condanne. Il gip del tribunale di Palermo Fabio Pilato ha convalidato i fermi degli arrestati nell’operazione antimafia dei carabinieri sul mandamento di Porta Nuova. Otto in carcere, per due il giudice ha ordinato l’esecuzione di una perizia medico-legale per verificare le condizioni di salute e la compatibilità con la detenzione dopo la richiesta dei difensori. Si tratta di Francesco Mulè, di 76 anni, soprannominato Zu Francu (difeso assieme al figlio Massimo dagli avvocati Marco Clementi e Giovanni Castronovo), e di Alessandro Cutrona, (legale Rosanna Vella), anche lui alle prese con problemi di salute. Entrambi, al momento, restano in cella, assieme a Massimo Mulè (50 anni, figlio di Francesco), Gaetano Badalamenti, di 53 anni (difeso dall’avvocato Michele Giovinco); Francesco Lo Nardo, 63 anni (avvocato Sergio Toscano); Giuseppe Mangiaracina, 43 anni (avvocato Debora Speciale); Calogero Leandro Naso, 28 anni (avvocato Antonino Turrisi); Salvatore Gioeli, 56 anni (avvocato Debora Speciale). Il nono fermato, Antonino Lo Coco, è in attesa del pronunciamento della convalida da parte del gip di Termini Imerese, essendo stato fermato in provincia.

Il giudice ha accolto le tesi della procura antimafia, coordinata da Maurizio De Lucia. La richiesta di convalida si fondava essenzialmente su tre capitoli contestati agli indagati: l'associazione mafiosa, l'attività estorsiva e il traffico di stupefacenti. Gli indagati hanno tutti precedenti. Secondo la giurisprudenza, «dove una organizzazione criminale di tipo mafioso richieda ai partecipi la loro definitiva adesione fino a quando non abiurino o vengano a morte, la perdurante appartenenza al gruppo della quale sia provata l'affiliazione può essere correttamente ritenuta in qualunque momento, se manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione anche in assenza della prova di condotte attualmente riferibili al fenomeno associativo ed anche nel caso di arresto e di condanna».

Le indagini rivelerebbero chiaramente come la famiglia mafiosa di Palermo centro sia sotto la direzione del nucleo familiare dei Mulè, in particolare Massimo e il padre Francesco per altro già destinatari di diverse sentenze di condanna. Durante gli interrogatori di garanzia, i difensori dei Mulè avrebbero dimostrato che non c’era alcuna intenzione di fuggire, vista la partecipazione a tutte le udienze del processo d’appello Cupola 2.0 (va a sentenza proprio martedì prossimo).

Nel periodo monitorato la famiglia mafiosa di Palermo centro secondo il gip «agiva in modo efficace e pervasivo, dimostrando una straordinaria capacità di sopperire alla mancanza dei numerosi sodali attualmente detenuti... C'è poi il dato preoccupante della partecipazione di nuove leve che affiancano i numerosi esponenti che nonostante le precedenti condanne continuano dal carcere a tessere degli interessi della famiglia di appartenenza e tornano a ricoprire lo stesso ruolo al momento della scarcerazione». Secondo il gip, Francesco Mulè non ha solo beneficiato del sistema di welfare durante la detenzione, ricevendo regolarmente lo stipendio... ma dopo la scarcerazione ha assunto le redini della famiglia, manifestandosi come il collettore di tutte le richieste.

Assieme al figlio, avrebbe gestito gli ingenti flussi di denaro in entrata nella cassa del sodalizio, garantendo la simanata ai suoi gregari e appuntandosi contabilmente le somme in un'agenda tenuta nel negozio di toelettatura di un parente. Massimo è stato già condannato per associazione mafiosa, sebbene sia stato poi assolto in primo grado su una seconda contestazione nell'ambito dell'operazione cupola 2.0. Oltre al traffico di droga e al contrabbando di sigarette, avrebbe reclutato coloro che si proponevano di operare per conto del sodalizio, decidendo se inserirli o meno nella compagine criminosa.

Francesco Lo Nardo era stato condannato a otto anni di reclusione per estorsione, attività dalla quale non si sarebbe però finora discostato. Secondo i pm, avrebbe messo a disposizione del sodalizio il bar in via Roma di cui era titolare, organizzando sia lì che nelle strade limitrofe, Pola e Parrocchia dei Tartari, incontri riservati con i sodali, tra i quali Francesco Mulè e Gaetano Badalamenti. Giuseppe Mangiaracina avrebbe invece segnalato al capoclan le potenziali vittime del pizzo, per esempio un cantiere. A lui sarebbe stato affidato il compito di monitorare i nuovi insediamenti produttivi e imprenditoriali nell'area della famiglia di Porta Nuova, garantendo che venissero praticamente autorizzate e che pagassero quanto dovuto nel giro delle estorsioni. Oltre che gestire problematiche nate in ambienti penitenziari, intervenendo per garantire protezione a un detenuto che aveva avuto dei dissidi in carcere.

Gaetano Badalamenti, indicato come il mangeskin, è già stato annoverato fra gli esponenti del mandamento di Porta Nuova, con una sentenza irrevocabile di dicembre 2012. Forte del suo pedigree e del nome che porta, si legge nell’ordinanza di convalida, ha provato a ritagliarsi un ruolo di vertice approfittando dello stato di tensione di numerosi elementi di spicco della famiglia. Di lui i picciotti dicevano che aveva «il lasciapassare ovunque». Ha seguito il traffico di droga tra Ballarò, Vucciria, Kalsa e Capo con i due presunti dipendenti, Alessandro Cutrona e Leandro Calogero Naso. Senz'altro più importante il ruolo del primo, mentre Naso sarebbe stato un suo sostituto, quando il compare aveva il Covid.

Infine, Salvatore Gioeli, alias Mussolini: anche lui condannato per avere fatto parte della famiglia di Porta Nuova sin dal 1996. In una delle conversazioni captate dai carabinieri, sarebbe stato proprio l'indagato a chiedere al capomafia Francesco Mulè di essere maggiormente coinvolto nelle attività della famiglia mettendosi a totale disposizione e di essere «pronto a buttarsi da una montagna pur di favorire il sodalizio».

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