«Mio padre quella domenica 14 novembre 1982, ebbe un presentimento. Eravamo a tavola, c’era pure Lillo. Disse che voleva farlo trasferire ad Agrigento perché sapeva che il suo lavoro era rischioso. Aggiunse che da Agrigento sarebbe stato più vicino al nostro paese d'origine, Sutera, dove una volta in pensione mio padre sarebbe tornato a vivere, assieme a mia madre. Fui io a dirgli che Lillo e la sua fidanzata di Palermo avevano già preso casa qui e che non era il caso di pensare di farlo trasferire. Quella sera alle 9 e mezza venne ucciso...».
Santina Zucchetto parla in modo lento, cala spesso la testa, quasi a ritmare l'importanza di queste parole, del presentimento del padre, del ricordo dell'amato fratello Lillo, più piccolo di lei di sei anni, nato il 3 febbraio 1955 a Sutera. Quarant’anni dopo si rinnova il ricordo del sacrificio di Calogero Zucchetto, poliziotto di razza della catturandi della Squadra mobile, diretta da Ninni Cassarà, anche lui poi ucciso da Cosa nostra, nel 1985. Zucchetto pagò un grande successo investigativo: la cattura di un latitante di primo piano di Villabate, Salvatore Montalto. Solo una delle tante inchieste condotte da Zucchetto, che a bordo della sua Vespa andava in giro per le zone calde della città a caccia di boss e dava il suo contributo ai più delicati rapporti investigativi di una stagione in cui lo Stato iniziava a dare duri colpi alle cosche.
«Quella domenica la ricordo come se fosse ieri - aggiunge Santina Zucchetto - è una ferita aperta che non si potrà rimarginare mai...». Guarda i tanti turisti che a piedi in corso Vittorio Emanuele sono alla ricerca di un posto per il pranzo, questo scorcio di città che il fratello Calogero amava tanto è cambiato rispetto a quarant'anni fa. «Sono stata alla cerimonia in via Notarbartolo, davanti al largo degli Abeti, dove una targa ricorda quella terribile sera. È stata una commemorazione molto sentita ed emozionante. Anche perché c'era un gruppetto di bambini della scuola di Sutera, la presenza più bella: erano con due maestre, con il vicesindaco di Sutera. Sono i giovani la nostra speranza».
Il piccolo Comune in provincia di Caltanissetta è rimasto il luogo del cuore della famiglia. «Mio padre era un funzionario della Regione. Due anni dopo la morte di Lillo si è messo in pensione ed è voluto tornare in paese. Non voleva più vivere a Palermo dopo che è successo il fatto. È morto di crepacuore. Mia madre è finita su una sedia a rotelle, io ho vissuto tutta la mia vita per loro, è stato giusto così».
Alle 9,30, davanti al largo degli Abeti, dove quella sera due killer uccisero Zucchetto sparandogli cinque colpi di pistola in testa, da distanza ravvicinata, le più alte cariche cittadine e della polizia, hanno ricordato il martirio. Il questore, Leopoldo Laricchia, proprio con Santina Zucchetto, ha deposto una corona sulla lapide che ricorda il delitto. Al loro fianco il sindaco Roberto Lagalla: «Ricordiamo il coraggio e il forte senso dello Stato dell’agente, ucciso da sicari di Cosa nostra. Zucchetto non aveva timore di entrare negli angoli nascosti dei quartieri di Palermo per cercare i latitanti e all’inizio degli anni Ottanta, collaborando con il commissario Ninni Cassarà, ha dato un prezioso contributo nel disegno dei nuovi assetti delle cosche. Quella di Zucchetto è stata una delle tante giovani vite spezzate dalla mafia e il suo sacrificio non verrà mai dimenticato».
Poco dopo, nella chiesa di Santa Maria della Pietà in via Torremuzza, alla Kalsa, don Luigi Ciotti e il cappellano della polizia, don Massimiliano Purpura, hanno celebrato una messa di suffragio. «Di mio fratello Lillo ho un bel ricordo. Che si ferma all'ultimo pranzo a casa, la domenica, poche ore prima della sua uccisione - dice ancora Santina -. Faceva il suo servizio con il cuore, con passione. Oggi sarebbe in pensione, magari avrebbe avuto figli sposati e anche nipoti. La vita di tutti noi è stata stravolta... Sapevamo che faceva un lavoro rischioso».
Lillo Zucchetto era un poliziotto che agiva sul campo, in quegli anni non c'erano telecamere e microregistratori ad aiutare nelle indagini. Il suo lavoro era fatto di pedinamenti e appostamenti, di giri sul vespone a caccia di latitanti, specie a Ciaculli. I due killer che gli tolsero la vita furono condannati, ma furono entrambi a loro volta assassinati: erano Mario Prestifilippo e Pino Greco Scarpuzzedda. Condanna per Giuseppe Lucchese e per i mandanti della Cupola di Cosa Nostra.
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