La rete era ben articolata ed aveva a disposizione perfino un infiltrato che sarebbe riuscito a individuare e a segnalare in tempo reale le ragazze nigeriane che avrebbero potuto essere indotte, anche attraverso pressioni psicologiche e minacce, a lavorare – sempre sottopagate e in molti casi pagate pure in nero – in 30 strutture ricettive situate tra Palermo e Castelvetrano.
Tra le carte dell'inchiesta sulle cosiddette «schiave del pulito» ha un ruolo centrale la figura di «Mister Johnson», alias Johnson Adeteye, 42 anni, ufficialmente il presidente della cooperativa Ecoworld che, in realtà, altri non era che il marito di una delle mediatrici culturali della Commissione per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Trapani, l'organo che ha il compito di valutare e di decidere in merito alle domande di protezione internazionale presentate anche nei territori di Agrigento, Palermo, Messina e Enna.
In totale sarebbero state 25 le migranti nigeriane e un uomo della stessa nazionalità ad essere stati prelevati dai centri di accoglienza La mano di Francesco di Roccamena, Donne nuove di Palermo e Opera pia Riccobono di San Giuseppe Jato per fare le governanti o le addette alle pulizie in spregio ai contratti di lavoro. I cinque indagati sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata all’intermediazione illecita ed allo sfruttamento lavorativo, nonché truffa ed estorsione, con l’aggravante di aver commesso il fatto ai danni dello Stato e con l’abuso di relazioni di prestazioni d’opera.
Secondo l'indagine della Squadra Mobile, con il coordinamento della Procura della Repubblica, Mister Johnson sarebbe stato una sorta di mediatore per conto della Ecol Group di Luca Cardella: i due erano legati da strettissimi rapporti d'affari come dimostrano le telefonate intercettate dalla polizia.
Ma era stata la presidente della Commissione per il Riconoscimento della protezione internazionale di Trapani, Ester Mammano, a svelare agli agenti cosa accadeva realmente: durante l'audizione, alcune giovani nigeriane le avevano raccontato di svolgere le mansioni di cameriere in alcuni alberghi cittadini con turni intensi ed estenuanti, senza la possibilità di fruire di riposo settimanale dietro la promessa di ricevere uno stipendio di 400 euro al mese che non era mai stato pagato. Tra le testimonianze, agli atti c'è quella di John, una ventiduenne ospite dello Sprar di Roccamena, gestito dell'associazione La mano di Francesco presieduta da Monica Torregrossa, 45 anni, un'altra degli indagati, pure lei ai domiciliari: «Questa donna, in accordo con l'italiano Luca – riferiva Mammano nelle dichiarazioni rilasciate agli investigatori contenute nell'ordinanza firmata dal Gip Annalisa Tesoriere - e da un soggetto di colore, chiamato Mister Johnson, marito della nostra interprete che quel giorno le aveva letto l'informativa preliminare, recluterebbe diverse nigeriane ma anche di altre nazionalità, per farle lavorare in svariate strutture ricettive palermitane e non, con la promessa di corrispondere loro una paga mensile 400 euro».
Ma c'è di più: alla responsabile dell'organismo per la tutela dei migranti, che viene insediato in prefettura, la donna africana avrebbe detto «di essere stata pagata soltanto una volta e di aver subito pressioni dalla propria responsabile Monica per continuare a lavorare, altrimenti avrebbe scritto alla Commissione per farle avere il diniego alla richiesta di asilo politico, oltre che di cacciarla fuori dal centro di accoglienza».
Il sistema che era stato messo in piedi agiva come un vero e proprio caporalato con gli intermediari che reclutavano e organizzavano la manodopera passandola ad imprenditori che non si facevano troppo domande: John, infatti, aveva puntualizzato «di lavorare ininterrottamente dalle 9 alle 16 e di sapere il luogo in cui avrebbe dovuto recarsi l'indomani mattina tramite Luca che scriveva in un gruppo WhatsApp composto da almeno 20 persone, tutte donne» specificando inoltre che lo stesso Luca «era solito andare in giro per gli alberghi chiedendo se abbiano bisogno di addetti alle pulizie, così da trovare per le ospiti del centro di accoglienza».
Riguardo alle condizioni che le straniere dovevano accettare, emblematica la testimonianza di Peace: «Mi svegliavo ogni giorno alle cinque e cominciavo alle sette. Il mio compito era di occuparmi dell'intera pulizia delle camere e anche della lavanderia, cioè portavo via le lenzuola sporche, piegavo quelle pulite e facevo i letti. Nella stanza dove dormivo ci stavano altre due o tre ragazze, c'era molto caldo e certe volte si dormiva per terra. Mi rapportavo con Franca e con una certa Mery che mi dicevano cosa dovevo fare giornalmente: lavoravo dalle dieci alle dodici ore al giorno, per questo non ci sono voluta più andare».
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