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Boss coinvolto nella strage di Capaci, la Cassazione: permesso premio anche se non collabora

Una veduta esterna del "Palazzaccio", sede della Corte di Cassazione

Ha diritto al permesso premio se ha ottenuto la revoca del 41-bis ed ha reciso i suoi collegamenti con la mafia. E può ottenere il beneficio anche un boss condannato a più ergastoli come Giuseppe Barranca, della famiglia mafiosa di Brancaccio, in carcere da oltre 25 anni e attualmente detenuto ad Opera a Milano.

Contro il no alla richiesta del permesso premio, la Corte di Cassazione ha accolto il suo ricorso. Il beneficio era stato rifiutato dal Tribunale di Sorveglianza, nonostante la revoca del 41-bis e il corretto comportamento tenuto in carcere, a causa dei numerosi ergastoli che gli erano stati inflitti per il concorso (così come avevano scritto i giudici) in alcune stragi di mafia: gli attentati di Capaci, di via dei Georgofili a Firenze, di via Fauro a Roma e via Palestro a Milano.

La sentenza della Consulta (253/2019) supera però il criterio della scelta collaborativa, stabilendo che il diritto ai benefici spetta anche a chi non è disponibile a “parlare”. E secondo la Cassazione, il permesso premio non può essere rifiutato neppure se la mancata collaborazione deriva da una scelta e non è frutto della cosiddetta collaborazione impossibile.

Quello che conta, secondo quanto sottolinea la Suprema corte con la sentenza 19536, è solo «la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali e mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita».

Il Tribunale, invece, aveva considerato del tutto volontario il «silenzio non collaborante». Dunque, per i giudici del riesame, a causa della mancata dissociazione, ma anche dell’assenza di azioni riparatorie in favore delle vittime, era difficile immaginare l'interruzione del suo legame di appartenenza alla mafia.

Secondo la Cassazione, invece, un giudice non deve fare queste valutazioni morali, e non deve desumere «un’emenda intima, personale ed umana del proprio passato, bensì la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita».

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