PALERMO. Il gup di Palermo ha condannato complessivamente a oltre 230 anni di reclusione 29 dei 30 imputati del cosiddetto processo Alexander, atto d'accusa contro mafiosi ed estortori del clan di Porta Nuova. Il processo si celebrava in abbreviato davanti al gup Roberto Riggio. La pena più alta, 20 anni, è stata inflitta al boss Alessandro D'Ambrogio. Unico assolto Alfredo Geraci.
Queste le pene per gli imputati del processo Alexander al clan mafioso palermitano di Porta Nuova: Alessandro D'Ambrogio 20 anni, Salvatore Alario, un anno e 2 mesi, Giovanni Alessi, 9, Salvatore Asaro 7 anni e 4 mesi, Ahmed Bachtobji 4 anni e 8 mesi, Andrea Bono 8 anni, Marco Chiappara 10 anni e 10 mesi, Giuseppe Civiletti 10 anni, Antonino Ciresi 13 anni e 8 mesi, Pietro Compagno 2 anni, Giuseppe Dardo 7 anni, Giuseppe Di Maio 8 anni, Raffaele Esposito 12 anni, Daniele Favata 10 anni e 8 mesi, Veronica Giordano 8 mesi, Salvatore Ignoffo un anno, Attanasio La barbera 8 anni e 4 mesi, Vincenzo Ferro, 12 anni, Francesco Paolo Nuccio 4 anni e 2 mesi, Ciro Napolitano 4 anni, Giacomo Pampillonia 8 anni, Francesco Scimone 8 anni e 4 mesi, Antonino Seranella 15 anni, Biagio Seranella 12 anni, Umberto Sisia 10 anni, Pietro Tagliavia 10 anni, Gaetano Rizzo, 3 anni, Giacomo Rubino un anno e 4 mesi, Carmelo Russello 12 anni. Assolto Alfredo Geraci.
Prima che il gup si ritirasse per la decisione gli avvocati Jimmi D'Azzò e Giovanni Castronovo hanno chiesto che non venissero liquidati i danni a Confcommercio sostenendo che la procura speciale rilasciata per la costituzione di parte civile dell'associazione era stata firmata dall'allora presidente Roberto Helg, recentemente arrestato per estorsione.
Secondo i legali sarebbero venuti meno i requisiti morali per chiedere il danno. La tesi non è stata accolta dal giudice. Il processo, istruito dai pm Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco, nasce da un'inchiesta che, nel 2013, disarticolò il clan guidato da Alessandro D'Ambrogio, 41 anni, detto 'u nicò (il piccolo ndr). Dall'indagine venne fuori che il boss era il dominus incontrastato degli affari della cosca. Ogni business, criminale passava per le sue mani. Anche chi voleva vendere 'sfincione', tipica pizza palermitana, o le stigghiole, le interiora alla brace vendute per strada, doveva chiedere a lui il permesso.
Il suo controllo del territorio e degli affiliati era tale che per un suo veto nessun uomo d'onore partecipò al matrimonio della figlia di un mafioso con il figlio di un esponente delle forze dell'ordine. Sua la gestione delle estorsioni - a raccontarne il ruolo una delle vittime che ha denunciato - sua la decisione di tornare a occuparsi di droga per sopperire ai magri guadagni derivanti dal pizzo.
Dall'inchiesta è emerso che il mandamento da lui guidato aveva stretto alleanze con altri clan cittadini e con le cosche di Trapani per acquistare grossi quantitativi di stupefacente. Cosa nostra esercitava un controllo capillare delle piazze dello spaccio e cercava di stabilire canali diretti con i paesi produttori di cocaina.
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