PALERMO. Quando il suo corpo venne ritrovato, il 6 aprile del 2011, erano anni che a Palermo non si vedevano scene del genere: un uomo nudo, incaprettato e abbandonato nel bagagliaio di un’auto. Questa la fine che fece Davide Romano, 34 anni, del Borgo Vecchio, il cui cadavere era stato sistemato in una Fiat Uno in via Titone, traversa di corso Calatafimi.
Un delitto di mafia senza alcun dubbio, sul quale finora però si era saputo ben poco. Ad indicare mandanti e complici, moventi e particolari agghiaccianti, è adesso l’aspirante collaboratore di giustizia e boss dell’Acquasanta, Vito Galatolo: «Lo zio Pietro è stato, Calogero Lo Presti», ha messo infatti a verbale davanti ai pm. Viene ritenuto «altamente credibile» dagli investigatori, «’u picciutteddu» del clan Galatolo, anche se parla de relato.
Riferisce cioè le confidenze di un amico, ma non ha partecipato direttamente al delitto. Secondo la sua versione, Romano sarebbe stato “punito” per le sue ambizioni nel business della droga. Non avrebbe voluto rispettare le regole e gli ammonimenti dello «zio Pietro», cioè di Calogero Lo Presti, il boss di Porta Nuova arrestato sempre nel 2011 nell’ambito dell’operazione «Pedro», che ne avrebbe così decretato la morte. Assieme a Romano - riferisce sempre Galatolo - avrebbe dovuto morire anche un suo ex compagno di cella, Giuseppe Ruggeri, il genero del boss Antonino Lauricella, «’u Scintilluni» della Kalsa, col quale avrebbe deciso di mettere su un giro di spaccio “indipendente”.
«Comprava la droga fuori dalla borgata», spiega Galatolo ai pm, fornendo un presunto movente all’omicidio di Romano. E, quando Lo Presti l’avrebbe richiamato all’ordine anche per questioni legate «al prezzo della droga», il picciotto gli avrebbe «risposto male». Troppo per Cosa nostra, troppo per il boss di Porta Nuova che non avrebbe potuto accettare non solo lo sgarbo, ma addirittura la pretesa di agire indisturbati, da cani sciolti, sul “suo” territorio. Da qui la condanna a morte. E quella del picciotto di Borgo Vecchio segue un copione antico, quello peraltro già sfruttato per ammazzare il padre, Giovan Battista, nel 1995. «Lo hanno attirato in trappola - racconta Galatolo - in una specie di stalla, lo hanno legato, massacrato di legnate e poi gli hanno sparato alla testa». Se a Giovan Battista Romano era toccato poi lo scioglimento nell’acido, per il figlio Davide venne scelto l’incaprettamento e l’abbandono del cadavere in un’auto. Per lanciare un segnale chiaro, molto chiaro, a chi eventualmente avesse voluto farsi venire strane idee per la testa nel mandamento. Galatolo punta l’indice contro Lo Presti, ma dice anche ai magistrati chi sarebbero stati i suoi complici, con tanto di nomi e cognomi, fornendo dunque molti elementi per riprendere seriamente le indagini sul delitto.
«Ruggeri doveva morire, lo doveva ammazzare Pecoraro», aggiunge il boss dell’Acquasanta, arrestato lo scorso giugno nell’ambito del maxiblitz «Apocalisse». Il Pecoraro a cui fa riferimento è Nicolò, 68 anni, ormai defunto. Proprio la sera in cui venne ammazzato Romano, Pecoraro, evaso dagli arresti domiciliari, venne fermato nel palazzo di corso dei Mille in cui viveva Ruggeri con una pistola calibro 7.65. Un dato questo che, per la verità, non molto tempo dopo l’omicidio di Romano ebbe ampia diffusione sui giornali. Galatolo dice però di aver appreso i particolari della vicenda da un un amico fidato.
Certo è che finora, anche se la pista della droga e l’ipotesi che la vittima avesse tentato di fare il salto di qualità erano state abbondantemente individuate, la Procura non aveva in mano elementi concreti. Ora, grazie alle dichiarazioni del boss, ha nomi e cognomi e può dunque pocedere a nuovi accertamenti.
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