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Colajanni: «Le denunce restano poche e c’è ancora chi paga per convenienza»

«E' inutile sparare cifre, ma le associazioni non possono reagire come ha fatto la Confcommercio»

PALERMO. «Sono ancora pochi i commercianti che si ribellano al racket delle estorsioni. Bisogna unire le forze e cercare nuove strategie che vanno oltre l’invito a denunciare». Quando si parla di pizzo, per Enrico Colajanni, presidente dell’associazione antiracket «LiberoFuturo», il problema principale è rappresentato dalla mancanza cronica di denunce. «Se guardo al passato - dice Colajanni - sono ottimista, perché rispetto a qualche anno fa c’è stato un grosso passo avanti. E se getto lo sguardo al futuro non dico di essere pessimista, c’è sempre la speranza di vedere cambiare le cose, sono invece molto preoccupato, perché la strada da percorrere è lunga. Il numero delle denunce è ancora troppo basso. Ma ci sono anche mille attività che denunciano preventivamente con l’adesione alla lista “Pizzofree” di Addiopizzo, e questo significa aver riconquistato del territorio».

In che realtà stiamo vivendo?

«La maggioranza degli imprenditori non denuncia. Magari qualcuno si rifiuta di pagare. Però è anche vero che, in molti casi, la denuncia, invece di arrivare nel momento in cui gli esattori fanno le prime richieste, scatta solo nel caso in cui gli imprenditori vengono convocati dalle forze dell’ordine, cioè quando gli inquirenti hanno già tutto in mano».

Come state affrontando questo problema?

«Sicuramente con lucidità. È necessario evitare di fare analisi sommarie del fenomeno, perché sono ancora troppi quelli che non si presentano spontaneamente per denunciare».

Per quali motivi?

«Dobbiamo considerare che c’è chi paga per convenienza ma che anche chi lo fa per paura, perché non ha fiducia nello Stato. Come fare a non dargli del tutto torto se poi si scopre che interi apparati delle amministrazioni pubbliche sono collusi? Molti imprenditori non si fidano delle istituzioni. E questo è un errore, perché lo Stato, grazie all’aiuto della magistratura e delle forze dell’ordine, ha messo in campo un numero consistente di persone pronte ad aiutarli».

Avete una stima del fenomeno estorsioni? Confindustria ha affermato che su una ventina di imprenditori del centro, i cui nomi erano scritti in un “pizzino”, il 90 per cento paga.

«È inutile sparare percentuali, cifre. In passato, l’80 per cento degli imprenditori avrebbe pagato. Una cosa è certa, se la mafia continua a chiedere il pizzo è perché capisce che ancora gli imprenditori pagano e non denunciano. Questo è un dato di fatto, una realtà da cui far partire un’azione di contrasto. Le associazioni non possono reagire come ha fatto la Confcommercio, così sembra un comportamento troppo difensivo. In quel “pizzino”, trovato fortuitamente addosso a un uomo, dopo un controllo di routine delle forze dell’ordine, ci sono i nomi di molte attività del centro. I commercianti sono stati tutti convocati dai carabinieri e in diciannove hanno negato di pagare, invece di affidarsi agli uomini e ai mezzi messi a disposizione delle forze dell’ordine».

Nonostante tutto, è fondamentale che il fronte dell’antiracket resti unito.

«Non si può pensare di affrontare un problema così complesso se non restiamo uniti a combattere una guerra che coinvolge diversi pezzi della società dove spesso regna l’impunità. E non possiamo rivolgerci con rigore solo verso gli imprenditori, tralasciando le altre attività professionali. Così come non possiamo non che pretendere dagli ordini professionali forti provvedimenti sanzionatori ed espulsioni per gli iscritti invischiati in vicende criminose».

Come uscirne?

«Bisogna applicare una strategia articolata di contrasto, che non si limiti al semplice invito a denunciare. La stessa Addiopizzo, con il consumo critico - pago chi non paga, ha spostato sui consumatori la responsabilità di aiutare seriamente le aziende. E con l’adesione alla lista “Pizzofree”, i commercianti non sono rimasti soli in questa guerra. Inoltre, con la rete di imprese oltrepassiamo il concetto della denuncia tout court. Questo modello lo stiamo applicando nella provincia di Trapani e servirà anche a dare una mano allo Stato nell’assegnazione e nella gestione dei beni confiscati alla mafia».

Quanto tempo ci vorrà per invertire la rotta?

«È un lavoro lungo, che giorno dopo giorno aggiunge un tassello a ciò che si può definire un cambio culturale e aggiunge forza soprattutto ai giovani che, l’abbiamo visto, hanno una repulsione quasi naturale alla mafia. Ciò rappresenta un’arma in più per cambiare le cose. Con gli arresti di Bagheria, improvvisamente si è squarciato un velo ed è venuta fuori una realtà diversa, una nuova classe politica, una nuova associazione antiracket LiberoFuturo Bagheria. Ci siamo ritrovati davanti una nuova epoca».

È questo che vedremo d’ora in avanti, una nuova epoca?

«Essendo un inguaribile ottimista, con l’operazione che ha decapitato la mafia di Bagheria mi è sembrato di vedere il film di come potrebbe finire il fenomeno mafioso».

Quanti casi di denuncia avete gestito come LiberoFuturo?

«In pochi anni abbiamo gestito oltre duecento casi e nel 2011 abbiamo esteso il nostro raggio d’azione a tutta la Sicilia occidentale. Il nostro ruolo è principalmente quello di assistere gli operatori economici che si ribellano al racket del pizzo rendendo il percorso della denuncia più semplice e sicuro, insieme all’azione sociale svolta da Addiopizzo. Entro il 2013 prevediamo di costituire un coordinamento che contenga oltre alle sette associazioni già esistenti (LiberoFuturo, LiberJato, Ati, LiberoFuturo Agrigento, Castelvetrano, Castellammare e Bagheria) anche le altre che stiamo costruendo».

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