PALERMO. «Dottore, i mandanti per lei sono gli stessi del dottore Borsellino». È con questa frase, rivolta da Vito Galatolo proprio al pm Nino Di Matteo, che si è aperta la corsa contro il tempo, la caccia al tritolo arrivato a Palermo per uccidere il magistrato che indaga sulla trattativa Stato-mafia. Perquisizioni, scavi, indagini a tappeto, ricerche che si sono concentrate, in particolare, nella zona di Monreale, dove ha una casa di campagna, con un terreno agricolo, Vincenzo Graziano, uomo d’onore di Resuttana, arrestato, assieme al boss neopentito, nel blitz Apocalisse del giugno scorso. Ma scavi, saggi del terreno, l’uso dei metal detector, del georadar e dei cani antiesplosivo non hanno portato a scoprire alcunché.
Un summit di boss, tenuto sul finire del 2012, avrebbe dato il via all’operazione che avrebbe dovuto portare all’attentato contro Di Matteo. Galatolo non ha indicato con precisione — al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e al procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi — i moventi e le ragioni di un’esecuzione che avrebbe potuto riportare a Palermo la stagione del terrore e della mafia sanguinaria. Era più urgente dare indicazioni sui luoghi in cui cercare l’esplosivo che si sarebbe potuto utilizzare per uccidere il pm e chissà quante altre persone. Mentre allo stesso Di Matteo, col quale Galatolo aveva chiesto di parlare per primo, il capomafia dell’Acquasanta ha detto una frase che riporta a mandanti esterni a Cosa nostra, a interessi oscuri che già avrebbero portato all’eliminazione — da molti ritenuta anomala e oggetto di una serie di depistaggi delle indagini — del giudice Paolo Borsellino. Di Matteo, ascoltato Galatolo, ha preparato subito una relazione di servizio inviata ai suoi superiori gerarchici. È stato così il procuratore facente funzioni di Palermo, Leonardo Agueci, a mettere in moto i meccanismi di protezione e l’invio degli atti al procuratore generale, Roberto Scarpinato, al capo dei pm nisseni, Lari, al prefetto Francesca Cannizzo e al questore Maria Rosaria Maiorino. Ieri un’assemblea tenuta in Procura ha rinnovato la solidarietà a Di Matteo, «unanime e incondizionata», ribadendo che i progetti di morte rivolti contro di lui «sono contro tutti noi».
Immediate le ricerche dell’esplosivo nella villetta di Graziano e, anche se non è stato trovato nulla — l’immobile e il terreno dopo due giorni sono stati restituiti al titolare — l’allarme non viene meno. Gli uomini della Dia, una quindicina, sono andati a Monreale, altri poco distante, altri ancora in luoghi diversi. Perché nel giro di un anno e mezzo, da quando potrebbe essere stata decisa l’esecuzione, è probabile che l’esplosivo sia stato spostato più volte, per evitare rischi come i pentimenti. Che poi, puntualmente, si verificano.
Nemmeno Galatolo, 41 anni, detto «u Picciriddu», aveva certezze sull’ubicazione e sul nascondiglio: l’indicazione di Graziano e del suo terreno è stata un’ipotesi. Vincenzo Graziano, ritenuto specializzato nella gestione delle slot machines, che avrebbe svolto per conto di Cosa nostra, era stato accusato di associazione mafiosa, con funzioni direttive: fu il primo indagato di peso a lasciare il carcere, poco dopo il blitz Apocalisse; il tribunale del riesame lo rimise in libertà per mancanza di gravi indizi di colpevolezza. Già condannato per mafia, aveva finito di scontare la pena nel 2012 e sarebbe stato regista del monopolio delle macchinette mangiasoldi e delle scommesse online, fonte di finanziamento per le «famiglie», proprio con Vito Galatolo e che assieme a parenti e amici i due avrebbero imposto nei bar di mezza città.
Gli inquirenti stanno intanto cercando di inquadrare pure il momento in cui i boss avrebbero deciso l’attentato: secondo quanto emerso, si collocherebbe attorno a dicembre 2012, quando Vito Galatolo — che era libero ma aveva il divieto di stare a Palermo — poteva tornare per seguire i processi. Due i summit ricostruiti nel blitz Apocalisse: l’incontro-clou sarebbe dovuto essere con Girolamo Biondino, fratello di Salvatore e padre di Giuseppe, nei giorni prima e dopo l’Immacolata di due anni fa. Il primo summit, fissato a Partanna Mondello, andò a vuoto, perché Biondino non si convinse di qualcosa e gli investigatori lo constatarono de visu. Il secondo fu organizzato con modalità più riservate, nella zona di via Lincoln. E stavolta il contatto visivo fu perso: forse fu allora che la sentenza mafiosa contro il pm antimafia fu emessa.
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