PALERMO. Parla un capo di prima grandezza di Cosa nostra, «nobile» dal punto di vista del blasone mafioso familiare, appartenente a una famiglia e a un mandamento della zona a sud ovest di Palermo. È lui, e non un confidente qualsiasi, ad avere rivelato il progetto di attentato alla cittadella giudiziaria e ai danni del pm Nino Di Matteo, anticipato ieri dal Giornale di Sicilia. Non è pentito, non è confidente, sta ancora valutando cosa fare del suo futuro.
Però temeva che la cosa andasse avanti: «Era tutto pronto — ha rivelato agli inquirenti — dovevamo eseguire il colpo a breve. Avevamo deciso noi del gruppo ristretto di comando, il direttorio dell’organizzazione. Il coordinatore dell’operazione ero io. Ma poi sono stato arrestato e non se ne è fatto più niente».
È per questo che, al di là delle smentite e dei ridimensionamenti di prammatica (e di facciata) è partito l’allarme attentati, l’ennesimo di questi ultimi mesi. Un direttorio al vertice dell’organizzazione, i capi dei mandamenti più forti, Porta Nuova, San Lorenzo, Resuttana, Brancaccio, Santa Maria di Gesù, che si consultano e danno il via alla reazione mafiosa contro lo Stato: è questo lo scenario che emerge dalle dichiarazioni del boss.
Il personaggio in questione, la cui identità viene qui tenuta riservata, non collabora ancora, ma potrebbe farlo. Lo sta valutando con i prossimi congiunti.
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