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Mafia, dai boss di Brancaccio "sussidio"
di 750 euro destinati agli ex detenuti

Dai verbali di Zarcone emergono nuovi particolari sull’organizzazione della cosca e su una guerra, per fortuna solo sfiorata

PALERMO. C’era una «squadra di assalto» per i danneggiamenti da fare a chi doveva pagare il pizzo, c’era un gruppo di fedelissimi dei capimafia di Brancaccio pronti a tutto e mantenuti con un sussidio da 750 euro, in vista della scarcerazione. Sussidio che, nonostante la crisi, o proprio a causa della crisi, fu poi aumentato a mille euro, che erano cinquemila (più le spese) per i tre o quattro pezzi grossi della cosca. In questa cosiddetta élite, però, c’era pure qualcuno che esagerava e che, alla lunga, fu esonerato dal compito di effettuare incursioni e rappresaglie. Era Piero Asaro, racconta il pentito di Bagheria Antonino Zarcone, uno dei personaggi tra i più decisi. Condannato a otto anni in primo grado, ora è nella lista dei sospettati della Procura per l’omicidio di Francesco Nangano, assieme a Nino Sacco, reggente del mandamento, che — stando al racconto del collaborante — avrebbe dato l’ordine di morte, per un debito da 30 mila euro legato a una pompa di benzina. Quel delitto sarebbe stato deciso a Brancaccio, dove i Sacco e Cesare Lupo si scontrano con i Lo Nigro. E il tentativo di Sacco di inglobare, annettere Villabate, strappandolo a Bagheria, portò i due mandamenti sull’orlo dello scontro.

Quei ragazzi irresistibili

Nel verbale del 14 ottobre, reso al pm Francesca Mazzocco, il neopentito racconta di un’estorsione da realizzare ai danni di un’impresa di movimento terra, «che stava facendo lavori su Brancaccio» e i cui camion furono fermati «per farli mettere in regola». L’estorsione fu «chiusa» proprio da Zarcone a cinquemila euro, pagati da uno dei titolari della ditta, che di cognome fa Salamone. Per chi non paga, i sistemi sono spietati e Pietro Asaro, condannato a 12 anni in primo grado, era la punta di diamante di un «braccio operante», un gruppo che si occupa di «traffico di stupefacenti, furti e rapine» ma anche «di massacrare di botte a qualcuno». Troppo violento, Asaro: «Non aveva rispetto da parte di Giuseppe Arduino e neanche tanto di Cesare Lupo, però era un ragazzo che a loro serviva». E poi, come avrebbe detto Nino Sacco, Asaro aveva «fatto la guerra ai Lo Nigro e solo per questo aveva un occhio di riguardo» verso di lui. Perché i Lo Nigro erano i suoi nemici giurati, nell’agitato mandamento guidato dai Graviano.

Sentinelle sul territorio

Nel 2011 si pente Onofrio Prestigiacomo, anche lui di Bagheria, e il figlio riceve minacce da Sergio Flamia (oggi anche lui collaborante) e Michele Modica. Racconta Zarcone: «’Sta cosa ancora non era ufficiale, che era collaboratore di giustizia, e questa notizia me l’ha portata direttamente un ragazzo, presentatomi come uomo d’onore, che fa parte in Cosa nostra». Il nome è omissato, ma si occupava di parquet ed era di Misilmeri, paese con cui «i rapporti li teneva Tonino Messicati Vitale».

Lotta senza quartiere

Nino Sacco esce dal carcere per un periodo e coglie l’occasione per un faccia a faccia con Antonino Lauricella, di Brancaccio. Nella sala giochi di Asaro, una domenica, si incontrano Sacco, «suo fratello, Bruno, Piero Asaro, Arduino, se non mi sbaglio erano un bel po’, una quindicina, erano diversi personaggi e Nino Sacco iniziò a rimproverare pesantemente Lauricella, ma in una maniera molto pesante». A quel punto Zarcone fa da mediatore. Chiede e ottiene che Sacco faccia uscire tutti: «Tu pensi che Lauricella — chiede al boss — abbia fatto qualcosa contro di te, ci sono atti? Dice no, effettivamente nelle carte processuali non risulta, che lui abbia agito contro di me. Però si è messo a disposizione dei Lo Nigro. Eh, ma, ci dissi, tu non c’eri e c’erano loro, è normale che iddu ci si metteva a disposizione».

La guerra sfiorata

Un odio profondo, un’inimicizia inestinguibile divideva i Sacco e i Lo Nigro. «Antonino Sacco è un personaggio strano, porta tanti rancori, c’erano discorsi ogni giorno su corso dei Mille e Brancaccio, per tutti i problemi che loro creavano, sia anche nella componentistica delle altre famiglie. Volevano, come mi disse anche Alessandro D’Ambrogio, che Villabate rientrasse nel loro mandamento». Però, spiega Zarcone, tra corso dei Mille e Villabate «non c’è stato un buon feeling, sia per il discorso dei Mandalà, che avevano già rotto ai tempi», ma l’annessione no, «non glielo abbiamo permesso, significa che eravamo in guerra con il mandamento nostro. E poi altre famiglie di Palermo avrebbero appoggiato noi e non se lo potevano permettere né loro e neanche noi di andare in guerra».

Il sussidio agli ex detenuti

Il verbale di Zarcone, prodotto dal pg Mirella Agliastro, non è stato ammesso dai giudici della prima sezione della Corte d’appello, presieduta da Gianfranco Garofalo, nel processo «Arduino più 19», o Araba Fenice. Nella decisione del collegio ci sono motivi anche di merito, legati alla genericità di parte delle dichiarazioni e alla mancata conoscenza di alcuni imputati, non riconosciuti in foto. Zarcone dice che Cesare Carmelo Lupo e Sacco «erano con la corrente dei Graviano, ma garantivano anche tutti i detenuti, che prima di uscire Nino gli mandava 750 euro ogni affiliato, uomini d’onore “ufficiali”». Poi il sussidio fu passato a mille euro, «più avevano tre o quattro referenti di nomi grossi, cui passavano cinquemila euro al mese, più altre spese per i familiari». Tanto, a mantenere questa crema della società pensa chi paga il pizzo.

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