Le gravi minacce ricevute da Claudia Caramanna, procuratrice per i minori di Palermo, a seguito delle richieste di allontanamento dal contesto familiare di alcuni figli minori di spacciatori e di trafficanti, impongono una riflessione che vada oltre la ovvia manifestazione di solidarietà. Quest’ultima, sia chiaro, è importante e va fatta a voce alta perché, come già spiegato da Giovanni Falcone, soprattutto in una terra come la Sicilia lo scudo rappresentato dalla società civile (talvolta colpevolmente distratta e, in misura per fortuna sempre minore, connivente) è un baluardo importante a difesa delle istituzioni e delle persone che di tali istituzioni rappresentano il volto. Tuttavia, fermarsi qui sarebbe un peccato, in considerazione del fatto che le minacce rivolte alla dottoressa Caramanna sono l’effetto di un modo di intendere il diritto e l’attività di giudicare spesso negletto – specie in questa epoca di populismo spinto – ma che merita di essere approfondito e guardato con favore.
L’idea diffusa è che il diritto, soprattutto il diritto penale, agisca attraverso l’uso della forza. È significativo che Max Weber colleghi il diritto al monopolio dell’uso legittimo della forza. Tuttavia, un diritto che si affidi soltanto all’uso della forza è un diritto che ha già perso in partenza. Il diritto non può fare a meno della forza ma quest’ultima è solo uno degli strumenti – e, mi spingo a dire, non il più importante – per difendere un certo modello di società. Il diritto è, in primis, il progetto di un certo modello di società. Il costituzionalismo che si è imposto dopo la Seconda guerra mondiale difende una società pluralista e inclusiva nella quale i diritti di tutti meritano la medesima considerazione e il medesimo rispetto. Questo progetto va perseguito con strumenti miti, per parafrasare il titolo di un libro celebre di Gustavo Zagrebelsky, e privilegiando i rapporti orizzontali basati sulla fiducia piuttosto che i rapporti di potere verticali, come sostiene ne La legge della fiducia Tommaso Greco.
I provvedimenti di allontanamento dei minori dalle famiglie di origine proposti da Claudia Caramanna presuppongono a mio avviso questo modello di diritto. Non si tratta di una pratica consueta ma non è neppure una pratica del tutto nuova. L’idea di tentare questa strada si deve al giudice Roberto Di Bella che, tra i primi, ha sperimentato queste misure in Calabria e che a questa esperienza ha dedicato il bel libro Liberi di scegliere, scritto con Monica Zapelli. Come si evince dal titolo, l’intuizione è che i minori che crescono in contesti criminali sono – in taluni casi, da valutare con attenzione – sottoposti a una violenza epistemica che sottrae loro qualsiasi reale possibilità di scelta. L’unica opzione possibile è quella di replicare il modello criminale familiare. In questi casi, l’unica speranza di ampliare il ventaglio di scelta del minore è quello di sottrarlo al milieu familiare. A dispetto di quello che si potrebbe pensare (e che è stato pensato e detto in relazione all’esperienza di Di Bella) non si tratta di esercitare la forza e di vagheggiare il ritorno a uno stato etico che detti modelli di condotta uguali per tutti ma di provare, con delicatezza e mitezza, di offrire (senza imporle) opzioni in più a minori il cui angolo visuale è, non per loro colpa, particolarmente ristretto.
Di Bella racconta la vicenda di Giovanni (nome di fantasia), un minore di ‘ndrangheta affidato a una assistente sociale a Messina per sottrarlo al destino dei suoi fratelli, tutti in carcere per scontare condanne per reati più o meno gravi. Gli inizi sono difficili, il ragazzo si chiude in sé stesso e la madre accusa il giudice di avergli sottratto l’unico figlio al quale poteva ancora dedicare le sue cure di madre. Piano piano la situazione migliora e sia Giovanni sia sua madre (infine, anche i fratelli di Giovanni) cominciano a guardare alle cose da una prospettiva diversa e a considerare lo stato non necessariamente come un nemico. La cosa interessante è che il riconoscimento è reciproco. A proposito della madre di Giovanni, Di Bella scrive: «Negli incontri in tribunale mi venne spontaneo ringraziarla per la disponibilità che aveva manifestato nei nostri confronti. Nei confronti della giustizia. In certi momenti, provai dispiacere per le parole dure che nei provvedimenti le avevo rivolto, avevo scritto che non era stata capace di contenere la pericolosità dei figli, di impartire valide regole educative, di salvarli dal carcere». È evidente che esperimenti di questo genere possono riuscire solo se tutti si mettono in gioco e sono disposti a riconoscere (o almeno a vedere) le ragioni dell’altro. Per questo mi ha fatto molto piacere leggere sui giornali che la procuratrice Caramanna, di fronte alle aspre critiche di un parroco della zona nei confronti dei provvedimenti di allontanamento dei minori, si sia recata dal prete per spiegare il senso di quei provvedimenti.
Il percorso è senz’altro accidentato e non sarà lastricato solo di rose e fiori. Tuttavia, sono convinto che si tratti di un modo di incidere sulla realtà che ha più possibilità di successo rispetto amisure come il carcere duro o l’ergastolo ostativo. Cambiando ambito, mi ha molto colpito tempo fa la considerazione di Franco Bonisoli (uno dei terroristi che ha rapito e poi ucciso Aldo Moro e, infine, iniziato un interessante percorso di giustizia riparativa con Agnese Moro) che il carcere duro e militarizzato a cui è stato inizialmente sottoposto ha rafforzato la sua scelta eversiva e che, invece, i primi ripensamenti sono legati alla decisione del direttore del carcere Le Vallette di Torino di istituire una commissione di detenuti per migliorare le condizioni di vita di questi ultimi.
Tornando alle minacce da cui siamo partiti, mi piace immaginare che in un futuro prossimo il loro autore possa scusarsi con la procuratrice e ringraziarla per il bene fatto ai suoi figli e ai figli dei suoi amici.
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