Pioveva pure la mattina del 15 gennaio 1993, a Palermo, erano più o meno le 9 del mattino anche trent’anni e due giorni fa, quando Totò Riina, il Corto, venne catturato dagli uomini del Ros. Con buona pace di dietrologi, complottisti e trattativisti di ogni risma e specie, i carabinieri del corpo di élite voluto dal generale Dalla Chiesa (e nato circa dieci anni dopo la sua morte per mano mafiosa), sono stati protagonisti anche ieri. Il primo e l’ultimo, l’inizio e la fine, l’Alfa e l’Omega - se vogliamo scomodare scenari biblici, epocali, data l’importanza storica della cattura di Matteo Messina Denaro - sono stati arrestati dal Raggruppamento operativo speciale dai carabinieri. Piaccia o meno. E a molti evidentemente non piace. Come se fosse una questione di tifo, di sostenere questo o quello, di dare la caccia a chi ha o avrebbe agevolato la latitanza di un tipo pure simpatico, Matteo, Iddu, u Siccu, Alessio o come volete chiamarlo, chiamatelo: uno che si faceva i selfie con i medici che lo avevano in cura, che non temeva di essere individuato e, a dispetto delle idee che magari ci si poteva fare di un superlatitante di cui non si aveva idea di dove fosse, chattava impunemente, da irredimibile tombeur des femmes, con le signore con cui faceva la chemio, portava pane e olio da Castelvetrano, si vaccinava come soggetto fragile nel suo paese di origine, dove nessuno lo riconosceva. Possibile?
Uno che ti spiazza, Messina Denaro, comunque. Preso solo perché la malattia è purtroppo ferocemente democratica e colpisce tutti, anche i latitanti. Come Bernardo Provenzano, che altrettanto impunemente era andato a curarsi in Francia, sotto il falso nome di Gaspare Troia, padre di uno degli affiliati che lo «tenevano» da latitante. Fece scalpore, la trasferta sanitaria - pure a spese della Regione - di Binu, l’operazione alla prostata che fu anche l’inizio della sua caduta fino a Montagna dei Cavalli, farà scalpore a maggior ragione la cura, sempre a spese del Servizio sanitario, dell’uomo senza manette e con l’orologio da 35 mila euro al polso.
E però il momento della cattura è anche il momento in cui paradossalmente ti danno addosso, e vabbè ma il Ros è quello che catturò Riina e non perquisì il covo, e vabbè ma chi ha coperto la latitanza dell’ultimo stragista, e vabbè ma fuori i nomi, in quella ridda di voci, chiacchiere e allusioni, sottintesi sapienti e sapienti che pensano di essere tali, che hanno la fissazione di una trattativa che magari ci sarà pure stata, ma che se viene invocata a ogni pie’ sospinto perde di consistenza, credibilità, valore. La ricerca delle coperture di cui ha goduto Messina Denaro è in corso, i suoi canali di comunicazione avevano dell’incredibile e basterebbe stare ai fatti per capire che magari non tutto è spiegabile in chiave complottistica, quando le intercettazioni audio e soprattutto video dimostrarono come, nonostante mille serrati controlli, Maria Patrizia Messina Denaro riuscisse nel giro di pochi giorni a comunicare con l’imprendibile fratello e a riferire le sue volontà, nello specifico quella di non uccidere e nemmeno limitarsi a malmenare l’imprenditore e suo prestanome Giuseppe Grigoli, perché «danno pi cientu vuoti po’ fari», anche solo con un pestaggio si rischiava di farlo pentire veramente, come si temeva che facesse e il rimedio sarebbe stato peggio del male.
A stare ai fatti di una situazione grave ma non seria, avrebbe detto Flaiano, la tesi secondo cui Messina Denaro si sarebbe consegnato cozza con il suo subito abortito tentativo di fuga, con la spregiudicatezza con cui si comportava ma anche con i mille accorgimenti per non essere beccato. Per Provenzano, alla fin fine, la altissima copertura istituzionale era un maresciallo del Ros che passava a un imprenditore notizie sul piazzamento delle telecamere e su alcune delle indagini. Tolto di mezzo lui, arrestati i principali fiancheggiatori, Binu concluse la sua ignobile latitanza dopo 43 anni in una masseria di Montagna dei Cavalli, vicino casa sua, a Corleone, affidato ai pochi compari rimastigli fedeli.
Il procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, lo ha detto chiaro, ieri: una fetta di borghesia ha agevolato Messina Denaro e la sua altrettanto ignobile latitanza. Saranno le indagini a dire se ci sono state coperture, quanti e quali individui consapevolmente abbiano aiutato un boss stragista a sottrarsi alla cattura. Mentre Palermo applaude fin dai primi momenti i carabinieri protagonisti della brillante, spettacolare operazione di ieri mattina, le microspie hanno più volte registrato, in passato, parole di adorazione e ammirazione di gente comune delle sue zone, quelle del Trapanese, per lu Siccu, uno che aveva contribuito a uccidere, far saltare in aria, terrorizzare un intero Paese con la spocchia tipica dei mafiosi, uno che ieri si è subito dichiarato per quello che era, mica un prigioniero politico. Può essere che avesse altissime coperture istituzionali, Messina Denaro, speriamo anzi che vengano fuori. Ovviamente se ci sono. Però alla fine è stata la stessa premier Giorgia Meloni quasi a «giustificare» chi il boss lo ha catturato: «Non c'è bisogno di mettersi d’accordo con la mafia per batterla», ha detto ieri sera. Una verità tanto ovvia da essere quasi banale: anche contro Cosa nostra bisogna saper vincere. Magari senza troppe dietrologie, per una volta.
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