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Peppuccio Tornatore e il tramonto delle ideologie: «La "politica bella" non abita più qui»

Il regista Peppuccio Tornatore durante il colloquio con il direttore Marco Romano

All'èpica «c'era che tutti avevano una grande passione per la politica, ciascuno dalla propria prospettiva ideologica». All'èpica «si era all'indomani della seconda guerra mondiale, quando tutti credevano che la politica fosse il mezzo ideale, l'unico, per potere cambiare la società. In meglio». Poi però venne la Bolognina. E arrivò anche Mani Pulite. E quell'epoca (quell’èpica) si dissolse, «la politica diventava e sarebbe sempre più diventata simbolo di ignominia». Smise di essere la politica bella di Ciccio Torrenuova, il padre del Peppino di Baarìa. Il nonno del Peppuccio regista. Del Tornatore premio Oscar.

All’èpica è il titolo del suo ultimo libro (edizioni Albatros), «che non è un romanzo, non è un saggio, non è cronaca, non è una sceneggiatura». E però prima di essere un libro avrebbe potuto essere un film: «Lavorai a lungo a quel soggetto cinematografico, mi piaceva molto. Ma a tarparne le ali fu Mario Cecchi Gori: «Troppe bandiere rosse, lasciamo perdere», sentenziò il plenipotenziario produttore, in tempi del berlusconismo imperante.

La cosa morì lì. E fra i tanti scatoloni accumulati negli archivi di progetti avviati e mai nati («Ho un'intera parete con i materiali raccolti in cinque anni di lavori per Leningrado», il film mai girato, il suo più grande cruccio, «ma chissà che un giorno...»), finirono anche tutte quelle interviste che «un giovane cineasta» (così si autodefinisce nella prefazione), fresco di incoronazione all'Academy aveva realizzato: «Stavo lavorando a un nuovo film e fra le varie tematiche che mi incuriosivano c'era quella della politica come mito positivo. Fin da piccolo ero vissuto vicino a quel mondo, mio padre per tutta la vita ha militato e lavorato nel Pci, nel sindacato. Io stesso avevo fatto il consigliere comunale a Bagheria, conoscevo tante persone. E le cercai». Da Francesco Renda a Emanuele Macaluso, da Giuseppe Speciale a Mimì Carapezza, da Luigi Lumia a Napoleone Colajanni, il libro raccoglie storie, ideali, utopie e sogni infranti. Compresi quelli di papà Peppino, «un vero eretico dell'ideologia, con i suoi dubbi, le sue perplessità e le diffidenze di chi diceva che lui non era un comunista, sol perché dubitava».

Solo le pressanti insistenze dell'amico editore Enzo D'Elia lo hanno convinto a rispolverare quegli scatoloni e infilare quelle storie nelle 500 e più pagine di un libro. Anche se nel frattempo molto è cambiato. «Quando pensai a quel lavoro per un film, volevo applicare lo schema già collaudato con Nuovo Cinema Paradiso, voluto in un momento in cui crollavano le presenze nelle sale e i cinema chiudevano, per raccontare invece l'epoca in cui per la gente andare al cinema era quasi una necessità biologica. Volevo fare lo stesso con la politica, raccontare quella bella, vera, alta, proprio mentre ne cominciava il decadimento. La politica allora era già in crisi. Oggi è come se non ci fosse. Sono sparite le ideologie, ma è ancor più grave che sono spariti anche gli ideali. Il desiderio di cambiamento, la politica delle riforme, il sogno della trasformazione, si è tutto avvitato in se stesso, determinando una sfiducia dura da sradicare e dando poi vita alle stagioni della rabbia, del vaffanculismo».

Proprio la sua Bagheria ha avuto uno dei primi sindaci Cinquestelle d'Italia. Tornatore sorride. Di un sorriso amaro. «Ai tempi in cui fui consigliere comunale (dal 1979 al 1984, ndr), fu organizzata una mostra di mie fotografie, alcune delle quali finirono poi per essere esposte permanentemente al museo Guttuso, insieme a quelle di altri artisti. Subito dopo l'insediamento della giunta Cinquestelle (corre l'anno 2014, ndr), mi scrive il neo assessore, comunicandomi che le mie foto sarebbero state rimosse. Ne presi atto e vabbè sticaz... non avevano alcun significato per me quelle foto. Ma la cosa mi colpì. Una volta mi trovavo con amici in una pasticceria a Bagheria e a un tavolo vicino c'era il neo eletto sindaco del M5S (Patrizio Cinque, ndr). Lui mi guardava, io lo guardavo. Non ci siamo neanche salutati. Nessuno dei due ha fatto un passo. Non mi sono rammaricato di non averlo fatto, né ovviamente pretendevo che lo facesse lui. Però si aveva già il sentore che quella fase politica fosse una gigantesca cilecca. Si capiva che non sarebbe successo niente, non avrebbero fatto bene. Li sentivo parlare, leggevo qualche dichiarazione, la sensazione era che il dilettantismo si fosse impadronito della politica. Un'impressione che poi tutti a livello nazionale abbiamo avuto molte volte da allora».

Il ritratto è impietoso, come l'amarezza del sorriso e dello sguardo mesto. «Oggi la politica dice solo quello che la gente vuole che gli si dica. Sui social viene fuori una problematica e il politico parla di conseguenza, il giorno dopo ne viene fuori un'altra, emerge un'opinione diffusa e il politico la cavalca. Una degenerazione che ha genesi lontane e radici profonde. Per fortuna non tutto è così tragico. Anche in un periodo cosi difficile esistono punti di riferimento importanti: un presidente come Mattarella meno male che lo abbiamo avuto. E meno male che ce lo siamo tenuto».
Neanche la pandemia, che doveva renderci migliori, c’è riuscita. «Nei giorni del primo lockdown, dei balconi, degli inni, dei #celafaremo si diceva che tutto dopo sarebbe stato migliore. Non ci ho mai creduto, ebbi subito la netta sensazione che invece ci avrebbe peggiorati. E così è stato. La gente è esasperata, arrabbiata, incattivita. Al di là di belle e luminose eccezioni in materia di solidarietà e umanità. Eccezioni, appunto». Il sorriso amaro diventa espressione cupa, quando ci si ritrova a parlare di Putin, mentre intanto guarda la prima pagina del Giornale di Sicilia del 28 marzo 1990: due colonne e una foto a colori per il suo trionfo a Hollywood, accanto all'apertura dedicata alle truppe sovietiche inviate nella secessionista Lituania. Corsi e ricorsi... «Sono sconvolto. Questa non è la Russia cui guardava il Pci di allora, anche se in realtà – dalle testimonianze raccolte nel libro – neanche l'Urss di allora corrispondeva all'immagine che ci si era fatti del comunismo ideale. Ho sentito al telefono una mia amica che vive a Mosca: Che cosa faccio?, mi ha detto. Sto tutto il giorno chiusa in casa a piangere, mi vergogno rispetto al mondo, poi vedi non posso dirti molto altro...».

In questi giorni è tornato a Bagheria, ha presentato il libro al liceo Scaduto, trascorrerà con la madre e la famiglia la giornata di oggi, il 25 Aprile («Mi sconcerta e mi dispiace, tutto questo assurdo continuo dibattito su una ricorrenza simbolica per noi così importante, eppure manipolata, fraintesa, utilizzata a sproposito»). Ma non sono più i ritorni tormentati di una volta, «quando dopo due giorni non vedevo l'ora di rientrare a Roma. Io ho lasciato tardi la Sicilia rispetto al teorema di Tomasi di Lampedusa, secondo cui un giovane deve andare via da qui prima dei 19 anni perché oltre quell'età la crosta si è ormai formata. Io ho aspettato i 27 anni, il danno era ormai fatto... Ma io sono andato via solo perché qui non potevo fare quello che avrei voluto fare, anche se molte cose mi addolorarono. Erano gli anni della guerra di mafia, io facevo già politica, Pio La Torre era quasi un nostro parente, avevo conosciuto Giovanni Falcone, Rocco Chinnici. La mia pacificazione con questa terra l'ho siglata quando ho fatto Baarìa, un film per me terapeutico. Da allora non ho più voglia di scappare, torno tranquillo e ci resto sereno».

C'è chi gli rimprovera di essere un regista siciliano che non ha mai fatto un film sulla mafia. «È vero, lo ammetto, ma non ho mai trovato un argomento o uno schema narrativo da approfondire. Oggi quello è peraltro ormai diventato un genere diffuso e abusato, non c'è più l'impellenza nel raccontarne le brutalità che avevano invece scrittori come Sciascia negli anni Cinquanta. Non è facile trovare schemi originali interessanti».

Difficile forse. Ma non quanto difficile fu... trovare qualcuno disposto a recitare nella parte del Totò adulto di Nuovo Cinema Paradiso. L'aneddoto emerge dai ricordi carichi di nostalgia nei giorni del dolore per la scomparsa di Jacques Perrin. «Una persona straordinaria. Quando iniziammo le riprese del film, non avevamo ancora trovato chi dovesse interpretare quel ruolo. Nessun attore italiano voleva farlo, ricevemmo una lunga serie di rifiuti, dicevano che sì ok è il protagonista, ma si vede solo alla fine... Ne parlammo a lungo col produttore. Gli dissi che Totò da grande doveva essere un adulto che ha conservato lo sguardo da ragazzino. Un po’ come il tenente Drogo nel Deserto dei Tartari». Proprio lui, Jacques Perrin. «Il produttore lo chiamò all'istante, gli mandò il copione, poche ore dopo aveva già accettato. Non avevamo abiti di scena per lui, si portò i suoi da casa. Il sabato arrivò a Palazzo Adriano, il lunedì stavamo già girando. Fu meraviglioso».

Come meravigliosa rimane la scena finale del film: «Decisi che non l'avrei neanche provata, che l'avrei direttamente girata. Preparai personalmente la pizza con i baci tagliati, gli dissi due parole e via. Lui la vide per la prima volta proprio mentre giravamo e intanto ascoltava la musica di Morricone scritta apposta per quella scena e riprodotta sul set. Fu perfetta. Il direttore della fotografia ne chiese un'altra, la facemmo, ma nel film ovviamente finì la prima. Fu un momento di grande commozione». Lo è ancora oggi. Come all'èpica.

 

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