PALERMO. Associazione mafiosa, delitti di estorsione, danneggiamento, ricettazione, favoreggiamento e reati in materia di armi. Il tutto, aggravato dal metodo mafioso. Centinaia di carabinieri hanno arrestato 62 persone facendo finire in carcere e ai domiciliari un gruppo ben organizzato e capace di tenere sotto controllo due grosse porzioni di territorio: quella di Villagrazia-Santa Maria di Gesù, e quella di San Giuseppe Jato.
Al vertice di questa “nuova” Cosa Nostra, due padrini ottantenni: il primo è Mario Marchese che, a 77 anni, guiderebbe il mandamento di Villagrazia-Santa Maria di Gesù. Il secondo, Gregorio Agrigento, di 81 anni, che avrebbe in mano il timone di San Giuseppe Jato.
Sotto di loro, un vero e proprio esercito organizzato e composto da almeno 50 soggetti. Un blitz dei carabinieri di Monreale e del Ros di Palermo li ha fatti finire tutti in carcere. Nel frattempo, i carabinieri stanno anche ponendo sotto sequestro preventivo attività commerciali, imprese e beni immobili, frutto di arricchimento illecito. E infatti, nell'indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, non manca nulla: dal pizzo ai danneggiamenti fino agli investimenti.
Aziende e imprese avviate con i soldi del clan. Vittime che diventano titolari delle aziende mettendosi in affari con i boss. E nessuna denuncia. Ma, a quanto pare, da qualche parte sarebbero ancora ben nascosti i tesori delle famiglie mafiose. I nuovi arrestati discutevano su proprietà da dividere che risalivano, addirittura, al principe di Villagrazia, Stefano Bontade.
Ma il nome di Mario Marchese, uno dei due ottantenni a capo del mandamento di Villagrazia, sarebbe già noto agli investigatori: Marchese, infatti, era imputato nel primo maxi processo alle cosche. Era un fedelissimo di Stefano Bontate; poi durante la guerra di mafia tradì, come altri, e passò ai vincenti di Riina e Provenzano. Il premio fu lo scettro del comando. E prima di allora, il suo nome venne fuori già nei primi anni 80, quando – si dice – riuscì a fuggire al blitz di Villagrazia. La polizia fece irruzione in una villa, luogo di riunione per discutere di affari di droga.
Tra i presenti, anche Benedetti Capizzi che divenne il capomafia di Villagrazia e arrestato poi nell'operazione Perseo nel 2008. Per una “malattia”, Capizzi scontava l'ergastolo per omicidio agli arresti domiciliari, e approfittò della sua comoda posizione per riorganizzare l'assetto di Cosa nostra insieme a Marchese, suo grande amico. Una grande e sincera amicizia: Capizzi scagionò Marchese dicendo che gli aveva prestato l'automobile. Motivo per cui, il giorno del blitz nella villa di Villagrazia, l'auto era parcheggiata proprio lì davanti. Marchese poi fece arrivare in Procura la prova che il giorno del blitz era dal medico curante. Il tutto mentre era latitante.
Nell'operazione Perseo, spiccava anche il nome dello “zio”, ovvero Gregorio Agrigento, fratello di un boss ergastolano, è invece il rappresentante di una storica famiglia mafiosa di San Cipirello, che da sempre è legata ai boss Brusca di San Giuseppe Jato. Il suo nome riecheggiò anche nei dialoghi intercettati fra il capomafia di Bagheria, Pino Scaduto, e Nino Spera di Belmonte Mezzagno. “Lo zio Agrigento ha la sua famiglia bella sistemata”, dicevano i due riferendosi a San Giuseppe Jato. Ma le intercettazioni non sono state utilizzate da parte dell'accusa. Motivo per cui Agrigento fu poi assolto con sentenza definitiva.
Dalle indagini condotte dal procuratore Lo Voi, e dagli aggiungi Agueci e Teresi, dai sostituti Del bene, Demonits, Luise, Mazzocco e De Flammineis, sembrerebbe che i due mandamenti non hanno nulla in comune. In realtà, nel 2013 i carabinieri di Monreale evidenziarono come i boss di Villagrazia e Monreale si contendessero il controllo sulla famiglia di Altofonte, rimasta al clan di Agrigento.
Ma fra i due mandamenti non era sempre tutto facile e, in mezzo, c'era un intreccio di interessi troppo importanti. Sempre nel 2013, infatti, venne assassinato Giovan Battista Tusa, anziano uomo d'onore. Del suo omicidio, Marchese sapeva prima ancora che si consegnasse alle autorità il cognato della vittima: non era stato un delitto mafioso, nessuno aveva osato uccidere senza il suo permesso.
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