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Palermo, Teatro Massimo: Andra e Tatiana raccontano agli studenti le atrocità della Shoah

«La memoria è come il gioco del telefono senza fili ma è a voi giovani che la affidiamo, con la speranza che niente vada perduto». Parole di Andra e Tatiana Bucci, le due sorelle di origini ebraiche superstiti dell’olocausto. Ed è stata proprio questa frase a guidare l’incontro avvenuto questa mattina al teatro Massimo di Palermo, grazie all’unione di intenti della fondazione e il museo della Shoah di Roma: 1200 studenti, provenienti da oltre 50 scuole da tutta la Sicilia, hanno occupato le poltrone del teatro, curiosi di ascoltare la testimonianza di Andra e Tatiana, testimoni attive della Shoah italiana e autrici di memorie sulla loro esperienza ad Auschwitz.

La madre di Andra e Tatiana, Mira Perlow, e la sorella, Gisella Perlow, erano di origine ebraiche. Scappate dall’Ucraina, arrivarono in Italia dove avevano conosciuto i loro futuri mariti, Giovanni Bucci (fiumano) e Eduardo De Simone (napoletano). Le due sorelle si divisero: Mira sposò Giovanni e visse a Fiume, dove nacquero le due sorelle, Gisella, invece, si trasferì a Napoli, dove diede alla luce il figlio Sergio, il primogenito.

Con l’annuncio dell’ingresso in guerra dell’Italia, i mariti furono chiamati alle armi e Gisella decise di ricongiungersi alla famiglia trasferendosi a Fiume. Poco tempo dopo, iniziarono le deportazioni: «Avevamo 4 e 6 anni - raccontano le sorelle - entrarono in casa nazisti e fascisti e fummo tutti deportati per due giorni nella Risiera di San Babba».
Due giorni dopo si aprirono le porte dell’inferno: «Siamo state caricate sui vagoni del treno diretto in Polonia - raccontano -. Al nostro arrivo ci separarono subito dalle nostre madri».

La nonna fu uccisa il giorno stesso, mentre Mira e Gisella vennero messe ai lavori forzati nei lager. Le due bambine furono scambiate per gemelle e insieme al cugino portate nel Kinderblock, la baracca dei bambini destinati agli esperimenti del dottor Josef Mengele. «Noi ricordiamo che nostra madre veniva a trovarci - raccontano - non sappiamo dire quanto spesso, ma lei ci ricordava ogni volta i nostri nomi. Noi bambini giocavamo - proseguono - e lo facevamo accanto alle cataste dei corpi scheletrici. Solo ora ci rendiamo conto dell’atrocità del fatto.».

Ma la figura più importante all’interno del campo di concentramento fu una blockova, un’addetta alla sorveglianza della baracca dei bambini e delle donne: «Disse che sarebbero venuti degli uomini a chiedere chi di noi avrebbe voluto rivedere la mamma - ricordano Andra e Tatiana -. Ci raccomandò di non rispondere e di non muoverci». In effetti, qualche giorno più tardi, i bambini furono radunati e gli fu posta la fatidica domanda. A fare un passo avanti, però, fu il cugino Sergio, al quale le due sorelle avevano riferito la notizia ricevuta tempo prima. Sergio, però, non resistette. Insieme ad altri bambini, il cugino di Andra e Tatiana fu preso dai nazisti per condurre degli esperimenti.

Dopo la liberazione, le sorelle, che avevano perso i contatti con la madre credendola morta, furono trasferite in un orfanotrofio vicino Praga. Un anno dopo, approdarono in Inghilterra in un centro di accoglienza di bambini resi orfani dalla tragedia dell’olocausto. Lì, però, furono ritrovate dalla madre, che non scordò mai i numeri tatuati sul braccio delle bambine. Soltanto dopo tantissimi anni, grazie al lavoro di un giornalista, Mauro De Simone, figlio di Gisella, anche lei sopravvissuta, nato nel 1946, scoprì come fu ucciso suo fratello: «I bambini furono portati ad Amburgo, dove venivano condotti gli esperimenti - racconta - .Gli iniettarono la morfina per ucciderli. Ma non morirono tutti: chi riuscì a sopravvivere fu trasferito in un’altra stanza e impiccato».

«La memoria deve fare parte del nostro presente - ha detto Marco Betta, soprintendente del teatro Massimo - il compito delle istituzioni è quello di coltivare la memoria perché teatro, arte e musica possano essere centro civile della società. Incontrare i testimoni è un passaggio fondamentale, di concretezza. Attraverso la condivisione del dolore possiamo sconfiggere il pensiero della violenza generatrice del dolore».

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